Luchino Visconti (Luchino Visconti di Modrone) è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 2 novembre 1906 a Milano (Italia) ed è morto il 17 marzo 1976 all'età di 69 anni a Roma (Italia).
Anche quando sembra attratto dalla cronaca, Luchino Visconti si tiene alla letteratura, costantemente preoccupato di descriverci la realtà da un punto di vista culturale, il solo punto di vista che interessa il suo animo di intellettuale serio e raffinato, di tutto informato, a tutto interessato.
Nel primo dopoguerra La terra trema aveva rappresentato l'incontro delle sue tendenze culturali (figurativamente fiamminghe, letterariamente verghiane) con l'osservazione della vita vera e in pieno neorealismo aveva significato, se non un ritorno all'indietro, certo un distacco, a testimonianza di una tradizione meditamente isolata, che non prendeva lezioni da nessuno.
Su quella linea alcuni anni dopo (1954) Visconti affrontava direttamente la storia con Senso dandoci il primo vero romanzo del nostro cinema: qua e là discutibile nell'impostazione dei personaggi (tratti alla lontana da un racconto di Boito) ma particolarmente significativo per il rovesciamento dei valori narrativi cui sottoponeva, con successo, la struttura del racconto cinematografico.
Se nel 1957 meno significativo doveva essere il prolungamento di questo esperimento nelle Notti bianche (tratto da Dostoievskji), a più felici risultati doveva invece arrivare nel 1960 con Rocco e i suoi fratelli, tacitamente -ispirato anch'esso a Dostoievskji, un film in cui la dichiarata derivazione dalle forme del romanzo - lucidamente inserite nei modi espressivi del cinematografo - conduceva a severo compimento il tentativo già in parte riuscito di Senso.
Protagonisti del film sono cinque fratelli lucani che, dopo la morte del padre, si lasciano condurre a Milano dalla madre nella speranza di poter farsi più agevolmente strada nella vita. Quattro di loro sono bravi ragazzi, dediti alla famiglia, al lavoro, alla vita in casa secondo usanze e patriarcali abitudini del Sud. Uno, invece, Simone, è la pecora nera e la sorte vuole che il primo ambiente che gli capiti di frequentare sia quello della boxe, nelle palestre di periferia; vi conquista subito un discreto successo e questo comincia a montargli un po' la testa.
A complicare le cose interviene un incontro con una ragazza leggera, Nadia, di cui Simone si innamora senza essere ricambiato, naturalmente, sul piano dei sentimenti. Nadia, anzi, dopo un po' si stanca dei modi tirannici di Simone e lo lascia, ma per un caso, qualche tempo dopo, si imbatte in Rocco, uno dei fratelli di Simone, se ne innamora e a contatto di una personalità tanto diversa dalla sua, decide di cambiar vita. Quando però Simone se ne accorge, tende un agguato ai due e affronta Rocco con tutta la irruente forza dei suoi pugni.
La reazione di Rocco non è quella che ci si potrebbe aspettare: vedendo Simone comportarsi così, capisce che per lui Nadia aveva molta importanza e capisce anche perché Simone, dal giorno in cui la ragazza era uscita dalla sua vita, non era stato più quello di prima ed era miseramente andato incontro con la boxe a un insuccesso dietro l'altro. Con molto altruismo, così, chiede a Nadia di rinunciare al loro amore e di tornare dal fratello. La ragazza si piega solo perché l'altro non le lascia scelta, ma si ripromette di rendere a Simone la vita impossibile. Ed è infatti quello che succede: oberato dai debiti, senza più nessuna possibilità nel campo pugilistico, Simone si vede spinto dalla donna verso la china peggiore; per trovar denaro, così, non indietreggia di fronte a nessuna bassezza e arriva perfino a rubare; lo salverà dal carcere la solidarietà dei fratelli, ma il suo destino, comunque, è segnato: si imbatte ancora in Nadia, tornata alla vita di prima e, cieco di furore, la uccide. Nessuna solidarietà familiare, questa volta, varrà ad arrestare il corso della giustizia.
Visconti ha distribuito questa materia in cinque vasti capitoli dedicati ciascuno a uno dei fratelli e disposti in modo da non apparire come episodi staccati, ma da risultare anzi il frutto omogeneo di un racconto corale in cui, di volta in volta, vengono in primo piano certi personaggi, senza che gli altri, pur finendo di sfondo, perdano mai la loro intensità psicologica e la loro evidenza drammatica. La sua regia, questa volta, pur rivelandosi attentissima al figurativismo, si è preoccupata soprattutto dell'umanità dei personaggi e questa ha sempre cercato di mettere in rilievo con la massima cura: felice soprattutto nel disegno del carattere di Rocco, così singolarmente generoso e ingenuo, delicato e timido, persino nell'asprezza di certe ribellioni, e nel disegno, più incisivo e duro, del carattere di Simone.
Allo scontro di questi due caratteri si devono le pagine più intense e più violente del film, l'esasperata aggressione notturna di Simone a Rocco, la dolente scena conclusiva che mette i due fratelli innamorati di una stessa donna di fronte all'orrore della notizia che uno dei due l'ha uccisa. Meno felici, forse, certe diatribe familiari, soprattutto quelle cui presiede la madre (tenute un po' troppo sopra il diapason, in un clima più esagitato e gridato che non intimamente tragico), e certe prese di posizioni solo dialettiche che in un'opera dalle profonde risonanze umane rischiano di insinuare il sospetto di un inutile schematismo polemico.
Riscattano comunque questi squilibri lo stile duramente realista (anche se di un realismo aulico e prezioso) di cui la regìa ha dato prova soprattutto quando descrive una certa Milano nebbiosa, certe strade di periferia, certi scorci di vita familiare (taluni « interni » in casa di Rocco sembrano riportarci figurativamente a La terra trema) e certe sequenze corali tese non di rado fino allo spasimo.
Nel 1963 Il Gattopardo, dall'omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, continua più apertamente Senso, anche se forse Rocco ne rimane la conclusione più felice. Al centro del film c'è un personaggio che, come nel romanzo, domina sugli altri, quello del principe palermitano Fabrizio di Salirìa travagliato da una crisi personale che è anche quella del suo tempo.
È un gentiluomo di antica razza venuto a trovarsi, per nascita, a cavallo tra due generazioni, quella che ha lealmente servito gli ultimi Borboni di Napoli e Sicilia e quella che, con lo sbarco dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia, si affaccia ai tempi nuovi, pronta a dimenticare il passato e a profittare dell'avvenire; lui, però, anche se non stima gli attuali Borboni, non può dimenticare del tutto il legame che l'univa ai tempi passati e, per quel che riguarda l'avvenire, vede il nuovo Regno troppo facilmente strumento di una casta fino a ieri tenuta a distanza; così, dopo un primo, contraddittorio e quasi cinico tentativo di venire a patti con i tempi nuovi, se ne ritrae silenziosamente.
Questa crisi, il testo di Tomasi di Lampedusa la seguiva fino alla morte del personaggio; il film, invece, ce la disegna fino al gran ballo che la nobiltà di Palermo offre in onore degli alti ufficiali dell'esercito piemontese dopo Aspromonte, quasi a volerci simbolicamente indicare, in quella festa in cui gli opposti si toccano e si conciliano, la fine senza rimpianti di una epoca e la nascita di un'altra forse abbastanza simile alla precedente, dimostrandoci che, se per i giovani e per gli arrivisti certe conciliazioni sono facili, per gli individui dell'età di mezzo, seri e non superficiali come il principe di Salina, sono invece impossibili; e producono soltanto amarezza e dolore.
Questa amarezza e questo dolore sono il clima in cui è immerso il film, dagli inizi, quando il protagonista, pur non volendo interrompere la sua vita feudale (nonostante i garibaldini prima e il plebiscito poi) deve piegarsi ad incontri e rapporti con quelli che fino a ieri erano suoi subordinati e che ora l'andazzo dei tempi fa entrare addirittura nella sua famiglia; e più tardi quando, superato il primo momento di acquiescenza ai piemontesi, capisce la difficoltà e l'inutilità di adattarsi al nuovo regime e si tira in disparte, rifiutando incarichi e onori.
Nello svolgere con sufficiente fedeltà le grandi linee del romanzo, Luchino Visconti si è soprattutto rifatto a questa amarezza, facendola scaturire da un susseguirsi di situazioni evocate con l'intenzione di riproporre quel senso di disfacimento, di desolazione e di morte che era tipico del testo di Lampedusa: il lungo e faticoso viaggio, ad esempio, tra l'accecante polvere estiva verso la villa di Donnafugata, concluso con quel quasi tragico Te deum che, presentandoci uno dopo l'altro, sugli scanni del coro, tutti i Salina, disfatti dalla fatica, impolverati, immobili, quasi cadaverici, riesce lividamente ad esprimerci l'atmosfera di tramonto cui tutta l'epoca va avviandosi; e, alla fine, quel ballo sontuoso che, indirettamente commentato dalla presenza distaccata del protagonista, più esibisce gaudio e fasti e più somiglia a una grande pompa funebre.
Nonostante la sua apparente gaiezza, questa è forse la sequenza che più stringe il cuore allo spettatore e che gli ricorda più da vicino quella sensazione di desolata nostalgia che gli avevano suggerito le pagine più tese del romanzo.
Certo vi sono delle riserve da fare, specie per quelle pagine che, tradotte sullo schermo, non sono riuscite ad esprimere tutte le intenzioni dell'autore letterario (da quella delle scorribande nelle soffitte di Donnafugata di Angelica e Tancredi, carica nel libro di trattenuta e affannosa sensualità e da una quasi erotica, morbosa tensione, alimentata da vetusti ricordi libertini del luogo, e rimasta invece vittima, nel film, della singolarità della cornice, divenuta con le sue ragnatele e i suoi decrepiti mobili polverosi, la vera e forse sola protagonista della scena; a quella del colloquio fra il principe e don Ciccio, dopo il plebiscito, svuotata in gran parte di quell'onesta indignazione che, nel testo, scuoteva fino in fondo l'anima del plebeo quando apprendeva che il suo signore stava per venire poco nobilmente a patti con i tempi nuovi), ma il film s'impone egualmente per la sua solenne atmosfera drammatica; confermando la ricchezza e l'intelligenza di quello stile che hanno procurato a Visconti un posto di primo piano nel nostro cinema.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d'Arte, Roma 1966
Quattordici lungometraggi e tre episodi: diciassette lavori in quarantanni circa di elegantissima carriera, da stagista sul set di Tonni per Jean Renoir agli strazi fisici, già menomato dal male, negli ultimi bagliori spesi per L'innocente. Non bisogna essere prolifici per forza, alla Fassbinder per esempio, per portare a casa capolavori ed emozioni capaci di stravolgere l'immaginario. Per Luchino Visconti basterebbe, tra l'altro, un titolo - un titolo solo: Rocco e i suoi fratelli - per giustificarlo al cinema. E poi, che dire del Gattopardo, di Senso, di Ossessione, di Ludwig, di Morte a Venezia? Un autore che può vantare tra i film cosiddetti “minori” opere come La caduta degli dei, Vaghe stelle dell'Orsa, Le notti bianche non ha alibi: è proprio un autore. Barocco, dandy e decadente quanto si vuole, forse inguardabile sul viale del tramonto (Gruppo di .Famiglia in un interno..), ma unico. Al punto da costringere gli storici a coniare l'aggettivo viscontiano, come solo per i grandi, Fellini in testa. Era viscontiana, dunque, maniacale, folle e impudica la sua maniera di filmare, di guardare, di decorare le scenografie e finanche gli interni dei cassetti che nessuno avrebbe visto né aperto mai. Con una magniloquenza controllatissima, scientifica, che non di rado sfiorava gelidi gradi di contro-versa introspezione, Visconti non poteva non portare con sé, al “lavoro' (e Il lavoro si intitola il bell'episodio da lui diretto per Boccaccia 70, con Romy Schneider), il suo sangue blu (... di Modrone...), la sua aristocratica visione del mondo, bertinottianamente comunista da salotto buonissimo che urlava in comode pantofole, davanti a un Proust e ascoltando un quartetto da camera, lo sdegno per un mondo ingiusto e classista e, soprattutto, allergico alle culture. E quindi, dopo un apprendistato che farebbe curriculum anche durante l'Apocalisse (cominciare con Renoir...), eccolo sfidare subliminalmente la propria omosessualità con un debutto tra il noir e il faceto, ossessionato più che dal romanzo di Cain (Il postino suona sempre due volte), dalla voglia di sdoganare un cinema piccolo piccolo, telefonato bianco, introducendolo per la prima volta fra il realismo magico francese degli anni ‘30 e i primi vagiti autoriali, magari cospargendolo di un neorealismo, più neo che preso dalla strada, cioè elaborato come una perfetta macchina hollywoodiana. Non pago, il Quarto Mondo della Sicilia del 1948, in una Terra che trema fra pescatori che non parlano italiano e pescatori che probabilmente neanche lo capiscono, (né lo vogliono capire). Una rilettura ideologicamente un po' forzata dei Malavoglia per una prima parte di una trilogia mai realizzata, causa flop al botteghino. Visconti, allora, si sposta a Cinecittà per sbirciarne le sue ombre e le sue contraddizioni con Bellissima, che pare un film di oggi tale è l'attualità del tema e la modernità del linguaggio, con i voli pindarici della piccola borghesia che si infrangono nel brutale cinismo di una macchina-cinema che, in quegli anni (inizio ‘50) era la televisione del passato, del presente e del futuro. Tra kolossal con l'affiato dell'autore che cerca il senso della vita e del proprio cinema nei rivoli della Storia (Senso, appunto; e naturalmente Il Gattopardo, La caduta degli dei, Ludwig) e pedinamenti intimisti (Le notti bianche, Vaghe stelle dell'Orsa, Morte a Venezia), Luchino ha il tempo - e ancora oggi non si capisce come abbia làtto a farlo: lui, così altero, nobile e “milanese” - di firmare uno dei melodrammi più fulgenti che la storia del cinema ricordi: Rocco e i suoi fratelli è una fabbrica di sogni cinematografici gettati addosso all'ormai vecchio e superato neorealismo, dove i personaggi sono splendide rielaborazioni, romantiche e romanzate, di uomini miserabili e donne predestinate. Nella forza delle immagini di Rocco e i suoi fratelli esplode la visionarietà politica e ideologica del Maestro come non era accaduto prima e come non accadrà più. Con Rocco, Visconti circonda il Mondo con spietata bellezza e severo, incalzante accanimento.
Da Film Tv, n. 8, 2004
In tutta la sua opera, regie di film, melodrammatiche e teatrali, Luchino Visconti è un regista problematico; è insomma un artista che ogni volta sembra incominciare dal giorno della creazione e riscopre i temi dell'umanità più antica, primordiale e ferma. Da questa sua costante inclinazione è nato, a parer nostro, l'equivoco che sempre ha accompagnato la sua attività; per alcuni critici egli è un decadente (basti pensare, aggiungono, a Senso a Le notti bianche, nella sfera cinematografica; a Zoo di vetro, a Un tram che si chiama desiderio, a Rosalinda, in quella della scena di prosa): per gli altri, identificabili in blocco con gli ideologi di sinistra, egli sarebbe un realista. E citano, per ciò che riguarda il cinematografo, La terra trema e Bellissima. Quanto al teatro insistono sulle regie de Il matrimonio di Figaro, di Morte di un commesso viaggiatore, de La traviata, e di Uno sguardo dal ponte. Che san tutti discorsi, come si diceva una volta, a ombrellino; perché appunto come gli ombrellini, si possono aprire, o socchiudere e chiudere secondo il bisogno.
Il problema estetico di Visconti, che sembra irto di difficoltà, si risolve senza urti se si definisce il regista di Ossessione semplicemente come un romantico dei nostri tempi, nella cui cultura sono affluiti con naturalezza sia il realismo postzoliano che i molti rivoli del decadentismo europeo. Il decadentismo è una teoria estetica sorta in Francia verso il 1885. Decadenti vennero denominati per spregio dai loro avversari un gruppo di artisti che si appellavano alla fantasia, alle rinunce morali, alla sofferenza squisita, all'esaltazione dell' «io». in lotta contro la meschina esperienza. Non per nulla la rivista più significativa del gruppo fu «La revue wagnérienne» che si proponeva di spiegare al miglior pubblico francese il significato rivoluzionario dell'opera di Riccardo Wagner. Se si riflette a una delle opere più celebri e «chiuse » di Visconti, Senso, si vede subito come la nostra tesi non abbia nulla di provocatorio, di ardito, di paradossale. Senso, proprio come La terra trema e Bellissima, appare come una critica alla classe dirigente italiana, attraverso la denuncia delle insufficienze e miserie nella guerra del 1966, e nello stesso tempo si compiace di quella raffinatezza, morbosità e illanguidimento che appaiono come caratteri tipici del decadentismo.
Da questo punto di vista tutte le contraddizioni viscontee si sciolgono in una visione unitaria dell'opera d'arte: il realismo dei film più celebrati non viene più inficiato dalle osservazioni di tanti circa la «non verità» di personaggi estrapolati da un'altra e diversa cultura come Farhey Granger di Senso o Alain Delon e Annie Girardot di Rocco e i suoi fratelli. In fondo, la matrice della disputa e la sua risoluzione sono già (compreso l'amore per il melodramma ottocentesco) in quella lontana pellicola, Ossessione, dalla quale Visconti ha iniziato il suo intelligente e brillante percorso. Sia pure tenendo nel debito conto le difficoltà obbiettive (il regime fascista nel primo periodo della guerra...) è piuttosto indicativo che, per tirare in porto il suo film, Visconti abbia sentito il bisogno di ricorrere a un romanzo americano di successo, un romanzo artisticamente di serie B, ma non certo scevro di una certa rozza efficacia narrativa:
Il postino suona sempre due volte di James Caine Era il giugno del 1943 quando, critici di un quotidiano di provincia, ci recammo, pieni di curiosità e simpatia, a vedere Ossessione. Ebbene, subito ci saltò agli occhi la congiunzione viscontea decadentismo-realismo. Il protagonista Massimo Girotti recava in capo una «casquette» alla francese, sconosciuta ai nostri proletari (e questo, pensammo, era una reminiscenza dei tempi in cui Visconti, abbandonati i cavalli da corsa di cui era in gioventù appassionatissimo, scoperti il cinematografo, il teatro, la cultura, era stato per qualche tempo in Francia, come assistente di Jean Renoir). Erano stati per Visconti, dopo le stagioni «pre-critiche» dei cavalli da corsa, gli anni dell'apprendistato. Quanto a Girotti girovagava per l'Emilia assolata e le strade che costeggiano l'Adriatico con uno spirito «non italiano».
La sua ribellione più che quella di un proletario insofferente del regime, appariva come l'avversione di un «tramp», popolarizzato a quegli anni dai refrattari di Faulkner, di Caldwell e di Steinbeck. Era un personaggio amorale, che si incontrava con una donna del suo stesso sentire. Ossessione, per ciò che riguarda i personaggi, aveva già tutti i caratteri di un certo decadentismo: il compiacimento per una determinata condizione anormale, la perversione etica come principio rivoluzionario, e persino l'esotismo mascherato, e pur chiaro, attraverso la rivelazione della fonte americana. Ma era presente anche il realismo, che era nello sfondo naturale, nella decisione programmatica di «girare» in esterni autentici, e soprattutto nella volontà di denunzia di una situazione oggettiva nemica delle anime.
Da Ossessione a Rocco e i suoi fratelli, da Senso al Gattopardo, il passo estetico è breve. Poco più di cento anni dalla liberazione del Mezzogiorno, dall'impresa di Garibaldi. L'italiano d'oggi scopre, non senza meraviglia, che tra Milano e Berlino ci sono meno chilometri che tra Milano e Siracusa; si accorge pure che in un secolo di unità nazionale s'è fatto ben poco per togliere le «aree depresse» da una condizione secolare di miseria fisica e di avvilimento spirituale. Se non è uno studioso, l'italiano medio ignora l'opera di valentuomini che hanno fatto miracoli per la gente del Sud, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, da Antonio Gramsci a Guido Dorso. Hanno scrutato il passato e si sono accorti che bisognava smistificare tutta una letteratura che parlava retoricamente di una floridezza potenziale del Mezzogiorno, umiliata e vanificata dalla cattiva volontà di insapienti dominatori. In verità la terra è grama, manca l'acqua, il terrore della malaria e la paura dei prepotenti ha indotto la gente a stabilirsi in grossi centri lontano dalle terre da coltivare. Paura, miseria, cattiva amministrazione, alluvioni hanno fatto il resto. In Calabria e in Lucania (la patria della famiglia di Rocco), che sono le aree più infelici del «deep South» italiano (e il nostro Faulkner è quel nobile, austero scrittore che si chiama Corrado Alvaro...), il gendarme, l'impiegato locale si è fatto alleato naturale del feudatario, del padrone; di coloro insomma dai quali dipende la sopravvivenza dei miseri, quelle poche «giornate» che significano il pane di tutta l'annata. Quasi a significare la sua diversa condizione, il segno della fuga dalla miseria, sempre l'intermediario, il soprastante, è fiero del suo ventre ben pasciuto, della sua pappagorgia, dei segni esteriori del benessere. In uno studio sociologico francese del nostro Sud si parla di madri che impediscono ai figli di andare a scuola perché la maestra insegna un codice morale diverso, e perciò nefasto, da quello della tradizione.
D'altra parte, la diffidenza, tenebrosa e tenace, verso chi fa le cose in modo disinteressato, quando cede all'evidenza delle buone azioni compiute, diventa fedele ed ha qualcosa di commovente. I «cafoni» non abbandoneranno più chi li ha beneficati con cuore puro. Si racconta di gente offesa contro certi funzionari della riforma agraria che, dopo aver assegnato i nuovi poderi, si rifiutano di suggerire «per chi votare». Secondo un'esperienza ricca della tristezza dei secoli, chi faceva benefici doveva avere una ragione nascosta; il rifiuto di rivelarla era un segno palese, di chi sa quali pericolose macchinazioni ai propri danni.
Forse, bisognava rifiutare il campicello, le sementi, gli attrezzi, la casa nuova. Per non doverli pagare a prezzo troppo alto fra breve. Un nostro amico, oggi studioso di buon nome, ci raccontava tuttavia di una sua lontana esperienza. Amministratore di una società che comprava e abbatteva foreste, da uomo educato e civile, aveva immediatamente applicato la norma sugli assegni familiari. I boscaioli, suoi amministrati, non li avevano prima mai percepiti; tutti di famiglia numerosa, avevano così visto aumentare di molto il salario. Non finivano più di dimostrargli la loro gratitudine. Quando venne trasferito al Nord, trovò a salutarlo alla stazione, con doni augurali, molti familiari dei lavoratori ex dipendenti. Donne di età grave avevano fatto trenta chilometri a piedi, attraverso la montagna, per ringraziare colui che si era limitato a osservare correttamente le leggi dello Stato.
In verità Visconti non è regista del neorealismo (c'è ne mai stato un vero?), ma un uomo moderno, che trova il suo bene un po' qui un po' là. Romantico e decadente, ha capito perfettamente che entro un certo realismo ambientale la vicenda di Rocco gli permetteva molte libertà. Non sono forse l'esistenzialismo e l'espressionismo diretti eredi dell'epoca romantica? A questa luce si capisce l'esasperazione delle scene che non sono piaciute alle «anime belle». Visconti non voleva «pater» questo e quello. Ha voluto, semplicemente, esasperare la realtà per conferire al suo film la concitata esperienza della vita.
Abbiamo voluto premettere un sommario riepilogo delle pellicole più significanti del regista per introdurre alla nuova opera che, da una parte si allaccia al «tabù» di Senso. in cui si vede un'aristocratica italiana amoreggiare con un ufficiale austriaco, dall'altra raggiunge idealmente il «clan» famigliare che sta al centro di Rocco e i suoi fratelli. Film quest'ultimo che, a nostro modo di vedere, resta l'antecedente, per il suo orrore religioso del male, di Vaghe stelle dell'Orsa. Nel nuovo film, diciamolo subito, non c'è una dipendenza da opere letterarie, come in Ossessione, ne Le notti bianche, ne Il Gattopardo; qui l'artista è solo con le proprie ossessioni psicologicocreative. L'impasto è originale e colorito, come in Rocco. Uno scienziato ebreo è stato denunziato alla Gestapo dalla moglie e dall'amante di lei. Una famiglia ricca, di alte tradizioni, subisce l'erosione sotterranea di una passione proibita: Clitemnestra è una ex-concertista, Egisto un avvocato provinciale, subdolo e astuto, Agamennone non lo conosciamo. Non ha precedenti che in un certo senso giustifichino, non presso i familiari ma di fronte all'umano destino, la sua punizione. In parole povere, ha maggiore libertà di movimenti dei moderni ha abolito il sacrificio di Ifigenia. Per noi, dopo l'«atto gratuito», non ce n'è più bisogno.
Elettra è Sandra, la figlia dell'adultera e del sacrificato, ragazza volitiva e sicura di sé. Sandra ha sposato uno straniero. Ora giunge da Ginevra per far conoscere al marito la casa paterna, il palazzo di Volterra che vide i suoi giochi infantili. Nell'avversione verso la madre e l'amante di lei, nel ricordo del padre eliminato, Sandra ha avuto un alleato sicuro, il fratello Gianni. Ma il loro affetto ha mascherato, almeno in parte, i propri fini eterodossi. Hanno giocato, pensato, fantasticato insieme. Ma non era un sentimento soltanto fraterno; si è rotto o forse soltanto malmenato, un vecchio «tabù» che suggerisce che non ci può essere amore, l'amore fisico, tra fratello e sorella. Sandra torna nella città antica, che si sgretola a poco a poco, quasi simbolo dell'umana impotenza davanti ai decreti del Fato, per un impulso che sembra un capriccio, una vanteria di ragazza «nata», ma che forse è qualcosa di torbido, di sentimentalmente reprensibile e irregolare, Sandra incontra Gianni, il fratello. Il gioco fra i due si fa ambiguo, tortuoso; soprattutto è condotto troppo da vicino. I due motivi del film si intrecciano come un tronco d'edera a un vecchio muro: Giocasta è folle, Egisto desidera che la ragna di chiacchiere da cui è avviluppato si annulli in un'impossibile accusa precisa. Sappiamo anche che Gianni è pieno di debiti, che ha venduto di nascosto oggetti e mobili preziosi della casa paterna.
Gli incontri furtivi, sul filo delle memorie adolescenti, di Sandra e di Gianni insospettiscono il marito straniero, un Fortebraccio cui non garbano i maneggi di Amleto. Venuto il momento della verità, dopo un gioco allusivo con l'anello matrimoniale della sorella, l'impetuoso Gianni è respinto. Il marito di Sandra, di semplice animo, gli dà una severa lezione. Avvilito, umiliato, frustrato, Gianni si uccide con dei barbiturici. Non è la morte serena di chi ha chiuso i conti con la coscienza infelice, con una vita troppo prodiga di sconfitte. Gianni è restato l'adolescente fragile e sentimentale degli anni perduti; invano chiama aiuto, dice che non vuole morire. Chi lo può sentire nel palazzo deserto di affetti? Non la madre chiusa ormai nel giro maniacale e depressivo; non la sorella che lo ha murato dentro l'arco irreversibile del passato, non il padre da troppo tempo perduto.
La tentata trasgressione del vecchio «tabù» occidentale, la rottura del «clan», il gesto della sorella che ha sposato uno straniero per abolire i ricordi, esaltano e raggiungono la regressione del protagonista verso l'infanzia. Come, nella proustiana «Recherche», la «petite phrase» della sonata di Vinteuil viene a interrompere puntualmente, accrescendola di nuovi e più intensi motivi di speranza, la «rêverie» di monsieur Swann, nello stesso modo, in Gianni, uomo sensibile, romanziere mezzo fallito, uomo di gusto in difficoltà, è il ricordo di Leopardi ad offrirgli, nella totale solitudine, l'alimento vitale. Quindi il film corre, anche nella sua ispirazione sotterranea, su un doppio filone del gusto: Marcel Proust, attraverso la «petite phrase», qui significata dalla presenza della musica di César Franck, uno dei presunti ispiratori della immaginaria «sonate»; l'altro delle leopardiane «Ricordanze» che oltretutto hanno precise affinità con un palazzo della più antica Italia. Da Volterra a Recanati il cammino non è certamente troppo lungo.
A questo punto del discorso ci concederemmo appena un accenno alle città del silenzio, scoperte dai decadenti europei, Berenson, Barrès, D'Annunzio, Thomas Mann, Huysmans, Régnier. Dietro, ovviamente, è Baudelaire. Ma la sua filiazione è come quella di Hegel, troppo ricca per essere univoca. Rimbaud, poeta eversivo, sfiora l'Italia correndo, ormai posseduto dal demone dei suoi «ancêtres» contadini: il denaro. Gli altri demoni li ha ormai disseminati per via; fruttificheranno, attraverso il misterioso Isidore Ducasse, fino ad Aragon e a Georges Bataihle. Gli altri sono eredi quieti, appartati. B.B., che è il più furbo, un gatto sornione, saccheggia disperdendole al vento degli oceani le bellezze neglette, l'Italia che adora. Simile in questo a quei mariti di belle donne che agguantano negli anditi bui le serve procaci; France s'è limitato a Firenze; Proust è stato deluso da Venezia; Barrès ha subito la sottile estenuazione dei laghi lombardi; Thomas Mann e il sottile, misconosciuto Henri de Régnier, sono restati fedeli a Venezia. Gabriele D'Annunzio,' con la voracità dei provinciali famelici che scendono, decisi a tutto, sulle opime città, non ha lasciato in pace nulla e nessuno, Urbino e Volterra, Firenze, la Versilia, Mantova, Venezia. Con Volterra gli andò male; il Forse che sì, forse che no è tra i più fiacchi romanzi suoi.
Uomo antico ma di cultura attuale, Visconti s'è limitato a tener conto dell'indicazione: Volterra è davvero una splendida «città del silenzio». Le opalines, i mobili preziosi, le vecchie pietre sono «liberty» come il decadentismo, come i veli della Tosca musicata da Puccini. La pietà del passato prossimo, ironica pietà perché s'è trattato di un'epoca, tutto sommato, tra le migliori della storia umana, ha aiutato il regista a sovrappone l'orrore delle età remote e del vicino universo hitleriano: il male del mito si mescola senza riluttanza all'inferno razionale e onnipresente dei «lager».
Viene perfino il sospetto che in questo film così suo, Visconti abbia voluto contrapporre la «forma» virile, l'idea apollinea, alla «matrice» muliebre, figlia degli amplessi che si consumano nella tenebra: «Je suis l'enfant d'une nuit d'Idumée,» come dice Racine in quel verso incantevole. La scelta di Claudia Cardinale appare, in questa direzione, esemplare. Giovane, ma non più adolescente, Claudia è una donna stupenda. Sensibile attrice, è ancora nel periodo in cui si desidera approfondire in umiltà l'arte e la vita. Sappiamo tutti che Visconti è un maestro di interpreti. Bisogna vedere come il regista ha saputo giocare con le luci e con le ombre. Le infrazioni dei «tabù» sessuali si commettono nell'ombra; lo sanno anche i bambini che giocano al dottore con le piccole amiche.
Gianni, nel primo incontro con la ritrovata sorella, sorge dall'oscurità complice del parco. Ancora un po' la natura, cui appartiene l'idea della donna, gli è amica. La continuità stilistica di Vaghe stelle dell'Orsa... appare, sempre a nostra opinione, proprio nella saldatura della storia visiva. C'è sempre stata, nei film di Visconti, una volontà pedagogica. Non per nulla egli è universalmente conosciuto come un artista «engagé». Tuttavia (si pensi al ballo e all'epilogo del Gattopardo, alle discussioni di Rocco e i suoi fratelli), egli ha sempre concesso uno spazio programmatico e didattico alle sue opere. In Vaghe stelle dell'Orsa... questo spazio non c'è. Trattandosi dell'umano destino, anzi dell'irrompere del Fato nella comune storia umana e di un'interruzione, caratteristica, nel flusso della vita borghese, Visconti non ha voluto interferire. Non si fanno interpolazioni in una storia di morti.
Ne guadagna notevolmente la schiettezza e la leggibilità dell'opera. In Rocco e i suoi fratelli, che noi riferiamo la prefazione proletaria, come storia in divenire, del nuovo film, che è storia passata, è significante che tutto si svolga in breve tempo, senza insistenze sui particolari «sgradevoli». Le coltellate che in Rocco hanno urtato le «anime belle» italiane e forestiere, potevano essere sostituite, come massa d'urto spettacolare, dagli amplessi tra fratello e sorella. Con intuizione sicura di artista, Visconti s'è guardato da ogni sfrenatezza visiva. L'effrazione avviene dentro l'animo degli spettatori, che restano incerti, fino e oltre l'epilogo, sul come e sul quando. Ci sono due tesi di fronte: le negazioni di Sandra e le allusioni del fratello. Quid est veritas?
Per noi la verità è quella di Gianni, che non può mentire in quanto è «un uomo». La menzogna è femminile, perché le donne, in quanto più vicine alla natura, le eccezioni non contano, sono aliene dalla storia. Natura contro pensiero, vitalità contro ragione. Se in Vaghe stelle dell'Orsa può apparire che la vitalità sta dalla parte di Gianni, non va dimenticato che, nel suo caso particolare, l'effrazione ha un preciso significato rivoluzionario. Ecco cos'è la famiglia: la madre ingannatrice e folle, il padre eliminato e non vendicato. Sandra è l'unica cosa viva, di carne e di anima, che gli resti del suo passato. Visconti è preciso, non gioca a mosca-cieca con i riferimenti culturali. Non sono intercambiabili secondo voglia. Rileggiamo insieme i versi miracolosi.
«Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo
e delle gioie mie vidi la fine.»
Vaghe stelle dell'Orsa... Il silenzio degli spazi infiniti turba Gianni come qualsiasi persona bennata. Sandra è la «presenza» che lo tiene legato a questa irresponsabilità che chiamiamo vita mentre non è che una pausa verso il nulla. Se Sandra sfugge, la regressione verso l'infanzia si chiude irreparabilmente, vanificando anche il passato. Le stelle dell'Orsa scintilleranno su altre generazioni; il giardino paterno sarà offerto alla buona città di Volterra; nella morte si troverà la fine e il principio di tutto. Leopardianamente, la quiete dopo la tempesta. Il luogo magico dell'incontro è perciò, tra Sandra e Gianni, la casa paterna; dissolto il nodo amoroso, riaperta la ferita malchiusa, guarita e immemore per l'intima qualità della sua natura femminile, la sorella troppo amata, Gianni può sussurrare come in un sogno: «... di questo albergo ove abitai fanciullo e delle gioie mie vidi la fine.» Con la memoria partecipe della grande, enfatica, sfrenata pittura del Seicento, Visconti fa la propria scelta estetica: non ci dà il bacio dei due fratelli; ci offre la morte solitaria di Gianni. Nell'incerta luce notturna, la spalla dell'agonizzante, liberata dai sussulti del corpo martoriato, ci appare come quelle dei santi torturati, con braci infernali e immonde tenaglie, dai manigoldi nei dipinti,ricchi di pece sulfurea, del Caravaggio e dei suoi seguaci: «du sang, de la volupté et de la mort».
Uno dei «segni» della moderna sensibilità è la camera «stregata», che appare sia nei narratori romantici sia negli scrittori di trame poliziesche. C'è anche in Cocteau. E non per nulla i surrealisti hanno fatto tesoro degli insegnamenti involontari e delle invenzioni di certa narrativa minore. Basterà ricordare Gaston Leroux. Visconti che, ricordiamolo una volta per tutte, ha scritto il copione con l'aiuto di Suso Cecchi d'Amico e di Enrico Medioli, ha pensato a conferire alla camera «stregata» un'altra dimensione; essa infatti ha la medesima funzione che hanno nell'antica letteratura gli spechi dove consumano le loro proibite passioni gli dei e gli eroi. Pensate a Didone che si concede a Enea nel IV libro dell'Eneide. Il «tabù» dev'essere violato con la complicità del silenzio e del buio. Il mistero circonda, sempre, le ragioni della proibizione. Per il vecchio Durkheim, il veto deriverebbe dall'orrore di versare il sangue del comune antenato totemico.
Se si vuol cercare un'ideologia in questo film stilisticamente compatto, scevro di dichiarazioni «arrabbiate», non c'è che da ricordare l'incitamento rivoluzionario: «cambiare la vita». Esso ci sembra sufficiente per dissipare tutti i tabù e per far tabula rasa del passato. E si badi che il motivo ritorna spesso nell'opera di Visconti: il principe di Salma, nel Gattopardo, muore per il rifiuto di dimenticare le tradizioni mentre il Simone di Rocco e i suoi fratelli si perde per aver voluto conservare nell'illuministica società milanese il feticcio dell'onore paesano. La caduta, ecco il simbolo cui coerentemente allude il regista: caduta di Alida Valli in Senso; di Annarella in Bellissima; dei poveri pescatori di Acitrezza ne I Malavoglia. Non importa l'ostacolo (ardore sensuale, vanità materna, rovesci naturali); importa la registrazione della sconfitta. La variazione operata da Visconti per Vaghe stelle dell'Orsa è fondamentale perché segna un cambiamento di punti di partenza: da Marx a Freud; dagli umiliati e offesi della condizione sociale agli offesi e frustrati della storia, e dell'indifferente natura.
Luchino Visconti sente, drammaticamente, che non si dà arte senza il racconto di un'impossibilità amorosa. Ecco perché fu il regista, a Parigi, di quel capolavoro, sull'amore di fratello e sorella, del teatro elisabettiano che si intitola Peccato che sia una sgualdrina. L'autore, emblematicamente, si chiama John Ford come il regista di Ombre rosse. Non solo, ma Volterra è il luogo del grottesco infortunio di Stendhal con la soave Matilde Viscontini. Separata dal marito, un generale polacco, Matilde aveva messo i figli in collegio a Volterra. Va a trovarli. Innamorato impaziente, Stendhal pensa che a Volterra, lontana dai luoghi abituali, Matilde può essere indotta alla resa incondizionata. Focoso, impulsivo, sentimentale, lo scrittore la segue goffamente, cercando di non essere visto, nelle vie della piccola città toscana. È presto individuato, sgridato, punito. Volterra fu segnata da allora, nell'album del «milanese di Grenoble», con una pietruzza nera, città del malaugurio e della disperazione.
I costumi moderni hanno limato fino all'appiattimento i costumi. Le impossibilità dell'amore sono talmente ridotte che l'incesto appare come una delle ultime «plazas» dove si possa opporre passione a destino. La libertà dell'amore stringe i margini del romanzesco, riduce miserevolmente le piattaforme dei sogni. I trovatori veneravano, ai piedi delle torri feudali, bellezze sequestrate, che avevano i babbi, i mariti e i fidanzati in Terra Santa. Appena cinquant'anni fa, una caviglia fuggevolmente scoperta da una bella donna che stava per montare in carrozza, alimentava le serate di un club. I bikini di oggi rivelano doti e mancanze femminili in modo da rendere quasi anodino il gioco degli amplessi.
Vaghe stelle dell'Orsa vive di autonoma forza vitale perché la proibizione di cui tratta è ancora efficace. Si tratta di un'impossibilità amorosa che ha energia e vigore, che suscita fastidio e ripugnanza nella cronaca dei giornali. Ma «omnia munda mundis»; e ogni argomento è poesia per i poeti.
Visconti dalla molteplicità della propria esperienza mondana ha saputo cavare i termini, dialetticamente robusti, di alcune «verità» obbiettive del mondo attuale. Eroe della solitudine, Gianni continua la lotta contro la società che ha fatto troppo presto a dimenticare il passato. Passando oltre la sovversione hitleriana, rimarginando con la chimica le fresche ferite, la comunità dei «beati possidentes» ha rifatto le antiche strutture. Il commercio ha sostituito la forza, l'oro è meno rumoroso dei cannoni. Gianni si uccide non tanto perché Sandra lo respinge, ma soprattutto perché scorge nel rifiuto la trama della nuova alleanza. Chi ha avuto, ha avuto. Messa da parte la madre folle, la sorella ha fatto sostanzialmente pace con l'assassino di suo padre. Cancella Volterra e l'infanzia per l'ipocrita perbenismo della città di Calvino e dell'avvocato Jaccoud. Sandra è diventa il simbolo, con il suo maschio straniero, della società d benessere che uniforma i costumi eliminando il peccato della poesia. Gianni è stato vinto una prima volta, attraverso il padre e la madre, dai carri, armati nazisti; ma la batosta finale la riceve vent'anni dopo, come i tre moschettieri di Dumas, dalla Coca Cola. Invano Sandra, fuggevolmente ritorna alle «madri»; partendo dalla asettica Annecy per l'etrusca Volterra, lontano dalle cliniche per l'obesus etruscus». Si tratta di una scelta provvisoria, di una liberazione ingannevole. A Volterra, nella casa paterna, trova fratello a ricordarle il passato comune. Mentre Sandra fugge, Gianni non sa resistere alla «petite phrase» degli abissi, alla carezzevole sinfonia che invita alla morte corporale.
Caro Visconti, ti dispiace se ti parlo con sincerità da amico e anche con l'intemperanza e l'inopportunità che caratterizzano gli interventi degli amici? Perché, sia ben chiaro, anzitutto, che io non riesco a non considerarti mio amico, e non riesco a non considerare me stesso tuo amico. Ciò mi pare naturale, nelle cose. Lo vedo nella tua presenza fìsica, nel tuo stampo e nella tua pasta. Lo avverto pensando a me che penso a te. La mia simpatia per te è inalterabile. Non te ne ho voluto (se non, veramente, per lo spazio di due o tre minuti) anche quando mi hanno detto che alla televisione francese hai sconsigliato la Callas a fare un film con me; anche quando mi hanno detto che sei stato a Venezia al fianco di Fellini, complice con lui nel dir male, senza nominarlo, dell'assente (cioè di me: che ero assente per protestare contro due processi dovuti alla mia presenza a Venezia l'anno precedente. Non avrei mai preteso la solidarietà di Fellini, figlio obbediente. Ma la tua...). Bene, voglio parlarti del tuo film e di quella che è la sua funzione oggettiva, come si dice, nell'attuale momento del cinema italiano.
Il tuo film cade nella seconda parte: dal momento in cui per una stradina buia, appena illuminata da un'aurora atroce, lampeggia opaco il faro di una motocicletta (che è un momento sublime, come direbbe un po' fatuamente un ragazzo dei «Cahiers» e come dico, sul serio, io). Da quel momento la tua ispirazione è venuta meno: la strage è fatta «cinematograficamente», senza mistero, con litri di colorante rosso sui corpi dei generici; l'ss Aschenbach si sfalda, diventando da personaggio di comodo, personaggio di romanzo d'appendice - giungendo a piluccare l'uva, mentre il figlio sta per violentare la madre - con la calma dei personaggi accademici di De Sade; anche tutti gli altri personaggi si sfaldano, perdendo ogni mistero: addirittura spiegano se stessi e i propri sentimenti, pedestremente e pedagogicamente, come fa Martin davanti allo ss, in modo esplicito; oppure giungono a fare la caricatura di se stessi come la madre, che diventa un pezzo di Ensor dopo esser stata un pezzo di Thomas Mann (un po' rifatto, naturalmente). L'assedio alla villa degli dèi è trasandato: indicato, come nei film di serie B, da alcuni generici vestiti da ss in motocicletta, oppure a piedi, nell'atto di salutarsi. Inoltre c'è l'inspiegabile incesto. Capiscimi, non dico inspiegabile perché ho bisogno di spiegazioni logiche (ce n'è fin troppe nel film: frasi come «Io ti voglio distruggere, mamma». Che i tuoi sceneggiatori avrebbero fatto bene a lasciare a Niccodemi). Dico inspiegabile psicologicamente (tutto si può inventare, dice Tolstoj, fuori che la psicologia). Un uomo «anormale» che ama le bambine di otto anni è «bloccato»: il suo eros è una cristallizzazione, non può concepire altro al di fuori di questo; di fronte ad altri rapporti soprattutto diversamente anormali, è impotente. L'incesto con la madre non è certo escluso: ma perché esso si realizzi occorre ben altro ingorgo di sentimenti che un desiderio di rivalsa venuto fuori come in un colpo di scena da una banale confessione con un ss (forse esso sarebbe stato più vero e giustificato, anche se più folle, se Martin anziché amare le bambine avesse amato i ragazzi). Invece, la prima parte del film, fino a quel famoso faro della motocicletta sul lago, è molto bella, degna di Senso (che è il tuo più bel film, non La terra trema). È molto bello perché non c'è sotto una sceneggiatura con vecchie scene-madri, ma è un mosaico, che è opera completamente tua. Potrei parlarti ancora a lungo del tuo film. Ma mi limito a fare ancora una sola osservazione: l'impiego dello zoom. Esso è una innovazione stilistica all'interno della tua opera; l'adozione di un mezzo espressivo non severamente tradizionale e che con tanta disinvoltura è usato dai mediocri registi. Ma tu l'hai completamente assorbito nel tuo vecchio stile: facendone così una pura vernice di novità espressiva, una piccola concessione ai tempi. L'hai codificata. Ecco: ci siamo: il tuo film (che ha codificato il nuovo e riconfermato il vecchio) si presta, oggettivamente, a un'operazione di restaurazione. Non per niente ho visto, allibito, uno di quei cinegiornali atroci, nati nella bassa corte del potere, che, riprendendoti mentre vai, credo, a un «defilé», commenta: «Toh, chi si vede, un regista vero». Ciò implica una reazione contro tutto ciò che il cinema ha fatto e scoperto in questi ultimi anni. Una reazione cinematografica, che è prima di tutto politica. Vedi i provvedimenti per la sicurezza dell'ordine pubblico, vedi la recrudescenza della censura (col minaccioso progetto di Cava), vedi la campagna moralistica, vedi, infine, il revanscismo del vecchio cinema. Ti avrà, spero, insospettito il coro dei consensi, che vanno, come per il Satyricon, da destra a sinistra. Tutti, infatti, hanno diabolicamente interesse alla restaurazione. Non ti è certamente sfuggito, per esempio, come anche nella campagna moralistica i giornali di destra e i giornali di sinistra siano proceduti di comune accordo, in una commovente alleanza. Non so fino a che punto tu sia responsabile di questo significato oggettivo del tuo film. Se tu abbia calcolato una specie di «ritorno all'ordine», con conseguenti complimenti generali; oppure se si sia trattato di un impeto irrazionale che ti ha spinto ad adempierti come tu non puoi non adempierti: restando fedele alle tue reali esperienze. Questo sei tu che puoi dirlo. Io non voglio giudicarti, ma chiarire qualcosa per te, che può essere giusto chiarire anche per me.
Da Tempo Illustrato, 22 novembre 1969
Post scriptum
Caro Visconti, mi sono accorto che ricopiando la lettera rivolta a te (pubblicata in questa rubrica), mi sono dimenticato nel manoscritto una frase. La seguente: «Fondata su esperienze divenute presagi». L'intero periodo va dunque letto: «La prima parte del tuo film è molto bella, perché non c'è sotto una sceneggiatura con vecchie scene madri, ma è un mosaico, che è opera completamente tua, fondata su esperienze trasformate in presagi». È una frase sibillina, una sintesi degna di una poesia ermetica, lo ammetto. Essa ha insieme molti significati. Un significato letterale: «Le esperienze autobiografiche che ha fatto da ragazzo sono divenute esperienze da farsi per i tuoi personaggi ragazzi: e quindi sono dei presagi, non dei ricordi». Nel tempo stesso, su un altro piano di lettura non letterale, la frase vuoi dire anche: «Le esperienze fatte credendo nella durata di un mondo, diventano presagi della dissoluzione di quel mondo». Oppure anche: «Non c'è passato e non c'è futuro: le esperienze sono cose del futuro e i presagi cose del passato: infatti oggi è il futuro di ieri. E ieri era un presente in cui si facevano esperienze che sembravano eterne». Eccetera. Tutto questo te lo dico perché so bene che la lettera che ti ho scritto l'altra volta era dura e anche crudele. Ma se c'era un equilibrio da ristabilire, volevo che fosse ristabilito.
La morale è che anche un «pezzo» di cinema che fa parte di un'esperienza superata dagli altri (che l'hanno solo appresa, ma non vissuta!) può essere ancora un'opera di poesia: e quindi ognuno deve adempiersi secondo le proprie esperienze, non rinnegarle. Questo per quel che riguarda il primo «pezzo» appunto, del tuo film. Per quel che riguarda il secondo, il discorso è diverso. Perché a una volontà di adempiersi sinceramente secondo ciò che fatalmente si è, si è aggiunta una volontà «reazionaria» di compiere tale operazione.
Da Tempo Illustrato, 6 dicembre 1969
Col suo sesto lungometraggio, Rocco e i suoi fratelli, Visconti affronta di nuovo temi della realtà contemporanea, portando l'attenzione sul fenomeno dell'emigrazione interna favorito dal grande processo di industrializzazione del Nord. Ancora una volta, di fronte al fermento politico, culturale e sociale che attraversa il paese, egli decide di offrire il suo contributo conoscitivo e interpretativo e puntualmente la sua opera, come una calamità, attira polemiche e lascia un segno che va ben al di là dello spazio cinematografico. È questa anche l'ultima volta in cui il regista diventa il bersaglio privilegiato di attacchi da parte di forze conservataci che, attraverso di lui, puntano a colpire per estensione la politica delle forze di sinistra. Negli anni successivi il bersaglio privilegiato diventerà Pasolini, mentre a Visconti si cominceranno a tributare onori e conferire premi sempre negati in precedenza.
Rocco e i suoi fratelli è il punto d'arrivo di un'idea di cinema che aveva identificato nel Sud il mito delle origini e delle radici più profonde della realtà italiana. Dopo la catabasi neorealista comincia, in una nuova fase di industrializzazione forzata, la marcia di risalita. Questo significa anche abbandono, tradimento nei confronti dei propri caratteri originari: per il regista la giusta dimensione implicita per, la rappresentazione del fenomeno non può essere che la tragedia. Rocco e i suoi fratelli è infatti una tragedia in cinque atti, ognuno dei quali prende il nome da uno dei figli (Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro, Luca), più un breve prologo che racchiude gli elementi necessari alla comprensione del contesto.
Il prologo è costituito dall'arrivo della famiglia Parondi a Milano: le prime immagini, che scorrono lungo i titoli di testa (con la macchina da presa che panoramica dall'alto in basso fino a incontrare la cancellata oltre la quale si vedono i treni in arrivo), marcano la barratura di separazione tra lo spazio indefinito dell'arrivo e quello della città alle spalle della macchina da presa.
Attraverso l'evidenza simbolica di queste immagini Visconti esegue il tema dell'arrivo, che appare sempre di più come mossa d'avvio obbligata.
Il motivo, qui come altrove, ha valore di ripresa archetipica che si sviluppa con coerenza da Ossessione a Vaghe stelle dell'Orsa, fino a Morte a Venezia in direzione non naturalistica. La luce della strada assolata di Ossessione è subito contrapposta all'ombra avvolgente e carica di erotismo della locanda, mentre in Rocco e i suoi fratelli le masse cromatiche sono fortemente contrapposte, quasi eliminando la scala di sfumature tonali tra il bianco e il nero. In Vaghe stelle dell'Orsa il passaggio improvviso dalla luminosità dei paesaggi toscani all'ombra e penembra del palazzo paterno ha il compito di far immediatamente risucchiare la protagonista nella dimensione della tragedia. Quanto all'arrivo di Aschenbach in Morte a Venezia, Visconti cerca di raggiungere, mediante l'identificazione dello sguardo della macchina da presa con quello del suo protagonista, una sintesi assoluta: l'occhio di Aschenbach (che giunge nel bacino di San Marco, via mare) si posa prima sui tetti della città, scorrendovi lentamente, poi sulle cupole, poi sui gondolieri, che trasportano un feretro e paiono fondersi con l'acqua.
In questo modo, come già aveva fatto con Rocco e i suoi fratelli, il regista immette lo spettatore al centro del motivo conduttore del film: l'arrivo, in realtà, è un approdo terminale e, in una sola breve sequenza d'apertura, sono anticipati gli elementi e i motivi della morte, del destino che deve compiersi attraverso la connotazione prodotta dalla nebbia, dalla foschia, dall'imbarcazione della sanità, dal nero della gondola, dal senso di vecchiaia e di malattia che ci comunica la visione del protagonista nel momento in cui il punto di vista torna dal soggetto dell'azione al regista.
Tornando a Rocco e i suoi fratelli, tutta la struttura del film si fonda su unità oppositive che investono i piani in cui il film si articola. Dal conflitto tra i due mondi del Sud e del Nord, presente a ogni livello, si sviluppano fasi più circoscritte che coinvolgono i protagonisti. In Rosaria, funzione tragica di madre, convergono, e urtano, i motivi dello scontro tra città e campagna, quelli della difesa feroce di un'idea di famiglia intesa come nucleo unitario capace di lottare contro il mondo e quelli della constatazione impotente della disgregazione di questa famiglia. Il conflitto col padre viene ad assumere il ruolo di nucleo generatore, di causa prima, di peccato originale: «È colpa mia - dice Rosaria a Ciro - se ho avuto l'ambizione di portare i miei figli belli e forti in città perché diventassero ricchi e si facessero valere e non avvizzissero sulla terra come il loro padre spento cento volte prima di chiudere gli occhi per sempre... Tuo padre non avrebbe mai voluto lasciare il paese. Ma io sì. Non ho sognato altro, per venticinque anni che abbiamo vissuto insieme... L'ho voluto per Vincenzo, per Simone, per Rocco e per te. Io non so che cosa volevo per voi. Il mondo intero mi sarebbe sembrato poco... Ma poi cos'è successo? Rocco mio se n'è andato di casa e Simone se l'è preso una... puttana. Maledetto il giorno che vi ho voluto portar via dalla terra di vostro padre!».
La percezione tragica della colpa che dev'essere espiata a prezzo del disfacimento della famiglia non tocca solo Rosaria, ma anche i due figli, Simone e Rocco, in apparenza contrari, di fatto facce speculari della stessa personalità.
L'oscuro legame che unisce questi due personaggi pone ancora sullo sfondo il motivo dell'incesto, destinato a emergere negli anni Sessanta sia nelle regie teatrali che in Vaghe stelle dell'Orsa e nella Caduta degli dei.
Girato in anni di grande tensione espressiva Rocco e i suoi fratelli è l'opera di un autore che, pur dimostrando di voler essere presente sulla scena del dibattito culturale e politico, dichiara anche di non voler barattare la propria idea di cinema e di teatro con gli stimoli che gli giungono dall'esterno.
D'ora in poi lo svolgimento del lavoro registico viscontiano assume un carattere quasi ontogenetico, come se egli intenda dar vita a realtà che gli appartengono in esclusiva, come parte integrante del suo vissuto culturale ed esistenziale. C'è sì, ancora, il breve e perfetto episodio del 1962 di Boccaccio '70 (Il lavoro), in cui Visconti pare voler fare, con molta ironia e crudeltà, qualche concessione al tema di moda dell'alienazione, ma col Gattopardo (1963) egli approda all'ideale messa in scena cinematografica da tempo inseguita e da questo modello non intende più discostarsi in seguito.
La perfezione raggiunta lo rende abbastanza insensibile all'evidente divaricazione tra la sua idea di spettacolo e la sua cultura visiva e quella di altri registi che operano in parallelo. I dissensi e i silenzi progressivi della critica lo scalfiscono appena. La presa di posizione nei confronti di Brecht e Artaud, la sua dichiarata refrattarietà verso tendenze e modelli registici differenti inevitabilmente, però, lo estraniano da ciò che accade e fa muovere il sistema linguistico espressivo nel cinema e nel teatro.
Visconti guarda con grande sufficienza e distacco alla nuova generazione di registi italiani dei primi anni Sessanta; in realtà non si riesce a capire fino a che punto il distacco sia voluto o si tratti ormai di un isolamento inevitabile. Sarebbe tuttavia sbagliato e riduttivo parlare dell'ultima fase della sua opera in termini prevalenti di regressione e involuzione stilistica e tematica, anche se sempre più il suo ideale registico si sposta verso l'Ottocento.
Il gattopardo, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tornasi di Lampedusa, nelle intenzioni del regista non vorrebbe essere solo una trascrizione spettacolare e una sfarzosa ricostruzione d'epoca. C'è, non ultimo tra i tanti obiettivi del film, quello di interessarsi dell'unità d'Italia secondo una prospettiva in parte antitetica in parte complementare a quella di Rossellini e - forse - ideologicamente più vicina a un film come I briganti italiani di Camerini del 1961 piuttosto che allo stesso Senso.
In un'intervista apparsa su «Paese Sera», Visconti dichiara a proposito del Gattopardo «Come sempre mi sono trovato a realizzare un film ispirato a un romanzo d'autore, io sono stato tentato e affascinato dalla possibilità che mi si offriva, di dare una realtà fisica ai personaggi del romanzo e di raccontare per immagini l'ambiente, in questo caso eccezionale in cui si svolge la vicenda: ma soprattutto di riuscire a riproporre, in un discorso visivo, i temi poetici e storici del romanzo».
Visconti torna in Sicilia a quindici anni di distanza dalla Terra trema per penetrare nel palazzo del principe Salina a Palermo, per mostrare la grandezza e decadenza di una civiltà al crepuscolo. È vero, il personaggio del principe domina la scena, ma mi sembra che oggi si possa anche riconoscere che il regista si preoccupa costantemente di restituire il quadro d'insieme nell'interazione di tutti gli elementi. La sua cultura scenografica e iconografica, il suo gusto maniacale per l'autenticità di ogni dettaglio vengono poi a comporsi attraverso un processo che non gli è mai esterno. Visconti ha al suo fianco come collaboratori negli anni Sessanta Piero Tosi per i costumi, Mario Garbuglio per le scenografie, Giuseppe Rotunno per la fotografia, il top della professionalità dei mestieri del cinema e tutti artigiani che sanno dar forma esatta alla sua immaginazione. Dal Gattopardo in poi la sua presenza è implicita in tutti i film, tanto quanto quella di Fellini dalla Dolce vita. Visconti rivive nel proprio immaginario la cultura di un'epoca. L'abbandono della distanza e il sempre più evidente processo di assimilazione con i personaggi fanno sì che la critica gridi al tradimento, mentre consentono al regista di liberare energie a lungo represse.
Mentre altri registi, proprio negli stessi anni, procedono al recupero di una memoria collettiva e popolare perduta, Visconti si sente investito del dovere di non disperdere un patrimonio di sapere e una memoria che la sua classe gli ha trasmesso. In questo senso ne diviene il cantore più legittimo e autorizzato.
Il tempo è il grande protagonista del film e Visconti ne sa coordinare e modulare le diverse modalità: dal tempo della memoria a quello storico, dal tempo dell'histoire événementielle e della cronaca familiare a quello assoluto della morte. Pur rendendo omaggio alle leggi della giovinezza e della bellezza dei due protagonisti a cui è proletticamente affidata la speranza nel futuro, Visconti riprende in più occasioni il tema della morte - dall'inizio fino al ballo finale e al ripetuto incontro e contemplazione da parte del principe del quadro con la Morte del giusto di Greuze. Questo tema a carattere autobiografico determina una perfetta identificazione tra soggetto dell'azione e soggetto dell'emissione del messaggio e consente di far sentire in tutta la sua tragica potenza il dramma del decomporsi di una realtà ormai priva di identità/e funzione storica.
Il gattopardo è un film monumento, la manifestazione più alta della cultura viscontiana e della sua visione del mondo, un'opera a cui decenni dopo il cinema internazionale continuerà a ispirarsi (si pensi all'Età dell'innocenza di Martin Scorsese) e che dal punto di vista produttivo non avrà molto seguito nel cinema italiano.
Dal Gattopardo in poi Visconti è affascinato e quasi risucchiato da quell'ideologia del negativo che diventerà di moda nella cultura di sinistra italiana nella seconda metà degli anni Settanta per merito soprattutto degli scritti di Massimo Cacciari, ma che è ancora troppo al di fuori dell'orizzonte di quel periodo per essere, non dico accolta, ma almeno considerata e valutata in sede critica iuxta propria principia. Il vantaggio di Visconti è che quella cultura e quel mondo non fanno parte di una biblioteca, ma sono stati introiettati nel suo vissuto, sono divenuti interlocutori quotidiani all'interno della sua esperienza vitale.
L'avvento del mondo nuovo non migliora certo la qualità della vita rispetto alla società di cui si è decretata la morte: questo motivo, già eseguito nel Gattopardo, viene poi variamente ripreso, contribuendo ad accentuare il dissenso della critica nei suoi confronti. Visconti dispone con ordine i suoi film, valorizzandone ora il senso individualistico (Morte a Venezia), ora quello collettivo (La caduta degli dei), il carattere di «messa da requiem» per una grande civiltà che si inabissa.
Non ci sono scarti sensibili nelle sue regie, né effetti immediati: dopo l'affermazione a Venezia con Vaghe stelle dell'Orsa nel 1965, le sue opere seguenti, Lo straniero (1967), La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973), Gruppo di famiglia in un interno (1974) e L'innocente (1976), girato lottando contro la malattia che lo avrebbe di lì a poco portato alla morte, si svolgono senza venir meno alle premesse, di cui si è detto, e senza imprevisti.
L'ultima fase, che avrebbe dovuto svolgersi sotto il segno di Mann e di Proust, acquisisce, come imprevisti punti di riferimento, Camus e d'Annunzio e mescola lo Shakespeare del Macbeth con il Mann dei Buddenbrock per raccontare, con La caduta degli dei, il dissolversi di una famiglia di capitalisti tedeschi alla vigilia dell'ascesa del nazismo. Visconti aveva pensato a una tetralogia tedesca (il terzo film è Ludwig) che avrebbe dovuto concludersi con La montagna incantata di Mann: la morte gli impedisce di portare a termine il progetto.
I film dell'ultimo Visconti costituiscono anche il più compatto, coerente e unitario corpus di immagini in cui si dimostri come una memoria collettiva possa sedimentare e rivivere nella memoria individuale. Tuttavia, pur riconoscendo e sottolineando i fortissimi fenomeni proiettivi, Visconti, di fatto, non si identifica mai del tutto con i suoi personaggi, neppure col principe Salina, che rappresenta, assieme al protagonista di Gruppo di famiglia in un interno, il suo alter ego più vicino.
Film dopo film esegue in molti modi il tema della morte, ora puntando il suo riflettore su individui singoli, ora illuminando luoghi e situazioni coinvolgenti intere classi sociali, mostrando il disgregarsi, dalle fondamenta, di una realtà ormai priva di identità e funzione storica.
La drammatizzazione, il senso della fine implicano e alludono, quasi sempre (si pensi al Gattopardo), all'urgere ai margini della scena di nuove forze che stanno per irrompere e liberarsi di un mondo giunto all'ultimo atto della rappresentazione. Quando Visconti metterà faccia a faccia due personaggi come Konrad e il professore, in Gruppo di famiglia in un interno, si troverà con stupore a scoprire nel giovane che ha partecipato alle lotte studentesche del 1968 una faccia rovesciata dell'anziano protagonista, egualmente perdente e ormai fuori della storia. Giunto a questo punto della sua carriera, dopo aver rappresentato più volte il senso di una sconfitta, Visconti si trova di fronte a un personaggio che ha attraversato la storia italiana del dopoguerra senza quasi esserne stato toccato e neppure sfiorato, tanto è immerso nella lettura dei suoi libri e nell'esplorazione dei suoi quadri.
E forse questo, di tutta la fase dell'opera viscontiana, che dal Gattopardo, attraverso Ludwig, giunge fino alla tappa terminale dell'Innocente, l'unico film in cui, accanto ai grandi temi ricorrenti come vere e proprie metafore ossessive (morte e dissoluzione, passato che si disgrega e presente estraneo e incomprensibile), il regista si interroghi di nuovo sull'oggi e sulle possibilità non utilizzate di comprensione e di vita nel presente. Quasi riconoscendo la legittimità delle critiche rivoltegli negli ultimi anni.
Giustamente si è osservato da più parti che al regista si attagliano alla perfezione le parole di Thomas Mann su Wagner: «Egli ha percorso tutto il cammino della borghesia tedesca dalla rivoluzione alla delusione e all'intimismo rassegnato all'ombra del potere». Ciò che rende più tragica la parabola dell'ultimo Visconti non è tanto la ripetizione del motivo della fine di un mondo (del suo mondo), quanto la consapevolezza di essere sopravvissuto troppo a lungo nel presente, accorgendosi che è ancora possibile far qualcosa per testimoniare in modo diverso della propria esistenza.
«Voi mi avete risvegliato bruscamente da un sonno che era profondamente insensibile e sordo come la morte» fa dire al personaggio del professore nelle ultime parole. In questo finale, più che in quello di trascrizione estetizzante delle ultime parole di Mann in Morte a Venezia, c'è forse il messaggio testamentario lasciato da Visconti ai suoi critici e ai registi e uomini del cinema da cui si era completamente estraniato. Un piccolo sincero gesto di umiltà, un lucido atto di coscienza di non aver fatto per tempo quello che si poteva fare con un altro atteggiamento nei confronti del mondo. È questo uno dei gesti autocritici più alti che un protagonista della cultura del dopoguerra abbia saputo fare offrendo retroattivamente ulteriori chiavi di lettura e interpretazione della sua opera, ma anche di quella di altri rappresentanti della sua generazione.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Due passioni stilistiche (il realismo e il melodramma), un tema di fondo (il dissolvimento dei legami che tengono unita la famiglia), una filosofia vitalistica che lo spinge su posizioni di sinistra, uno scetticismo che la sottende e, in parte, la contraddice. Tutto ciò entra nella "cultura di questo rampollo d'una delle più antiche famiglie italiane (padre latifondista, madre appartenente alla aristocrazia industriale milanese), che, dopo il servizio militare in cavalleria, coltiva il teatro e la musica, alleva cavalli, a Parigi è assistente di Jean Renoir. Il suo primo film avrebbe dovuto essere una riduzione del verghiano I Malavoglia, ma la censura fascista lo vieta. Ripiega su un romanzo dell'americano James Cain (sono gli anni in cui la letteratura USA conosce una capillare diffusione in Italia) ricavando da Il postino suona sempre due volte una storia di passioni degradanti, ambientata nel Polesine. È il 1943, e Ossessione è la memorabile scoperta di una umanità avvilita e torpida, di personaggi per il cinema italiano inauditi (la malmaritata Giovanna, il vagabondo Spagnolo, l'abulico Gino).
I Malavoglia diventano film nel 1948, costretti nella cornice documentaria del dopoguerra, fra pescatori sfruttati e fermenti rivoluzionari: La terra trema diverrà uno dei pilastri di quel neorealismo da Visconti anticipato con Ossessione e ora portabandiera della cultura nazionale dopo la fine del fascismo. Nel 1954 all'aspirazione realistica e alle riprese dal vero, in bianco e nero, si sostituiscono il fasto del melodramma e la suggestione della storia risorgimentale per l'elegante affresco che racchiude i destini di due personaggi «maledetti» (una contessa veneziana «traditrice» e un ufficiale austriaco). È Senso.
Ora in piena evidenza, realismo e melodramma occupano l'animo di un intellettuale che, nel frattempo, ha rinnovato radicalmente il teatro italiano, sia sulle scene della prosa che su quelle liriche e si appresta ad approfondire in due direzioni la sua ricerca cinematografica: da una parte con il gonfio ritratto realistico di una famiglia meridionale emigrata a Milano (Rocco e i suoi fratelli,1960), dall'altra con alcune raffinate meditazioni sulla storia, dove melodramma e conati realistici convivono, talvolta magnificamente (Il Gattopardo, 1963; La caduta degli dei, 1969; Morte a Venezia, 1971), talaltra faticosamente (Lo straniero, 1967; Ludwig,1973). Intatto rimane lo splendore figurativo, e forte qua e là una sorta di ambiguità psicologica (Le notti bianche, 1957; Vaghe stelle dell'Orsa, 1965; Gruppo di famiglia in un interno, 1974; L'innocente, 1976, da D'Annunzio, l'ultimo film che getta una luce interessante sia sulle passioni stilistiche che sulla ideologia dell'autore).
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Non sempre è lecito credere alla effettiva verità di certe derivazioni che la critica scopre negli autori presi in esame; tuttavia, nel caso di Vi sconti, non mi sembra si possa negare l'influsso che a certi modi della su: regia è venuto da Jean Renoir, di cui egli fu per qualche tempo l'assistente Proprio a base del mondo e della concezione artistica di Renoir sta infatti una visione della vita frammentaria e non unitaria, dispersiva e non concentrata. Renoir ha visto bene che, generalmente, il processo artistico tende a isolare ed esaltare certi fatti, lasciando il restante nell'ombra, e agende quindi con un criterio di scelta; la realtà, invece, pone tutto sullo stesse piano, avvolgendo le cose in una fittissima rete di relazioni maggiori e mi. noci, a cui non bada chi e preso unicamente dalla convenzione scenica.
Per questo i registi mediocri sfornano film così tristemente uguali l'une all'altro; perché badano unicamente alla situazione in sé, situazione che ben difficilmente può variare, e trascurando per dir così gli accidenti di essa, quegli accidenti che, adeguatamente studiati e interpretati, sommandosi insieme in un gran numero finiscono per dare alla scena stessa una risonanza e una quantità di significati che altrimenti non avrebbe certo avuto. Di qui viene la singolare impressione di pienezza di vita che danno allo spettatore certi film di Renoir: dall'attento esame di un mondo poliedrico, le cui molte facce riflettono ciascuna un particolare destinato a ricomporsi in una superiore unità. Siamo decisamente all'antitesi della concezione classica e della vita e dell'arte, siamo in piena modernità, di fronte al valore riconosciuto uguale di tutte le cose del mondo rispetto all'occhio che le guarda.
Sotto questo aspetto, può dirsi che Visconti porti alle estreme conseguenze le premesse di Renoir; tanto nei suoi film quanto nelle sue regie teatrali, infatti, il valore dello sfondo è accentuato in ogni modo, fino ad assumere quasi un valore corale che determina e condiziona il dramma stesso anziché esserne determinato e condizionato. Per questo ricordiamo con tanta facilità e con tanta ammirazione così il pesante clima padano di Ossessione come l'ambiente ferroviario di La bête humaine: perché i due film erano così intrisi di quella natura e di quello sfondo, e i personaggi vi respiravano naturalmente, approfonditi in tutte le loro dimensioni, con un prima e un dopo, senza la deplorevole provvisorietà che è il marchio di fabbrica di tanti film non riusciti. Avevamo dinanzi a noi degli uomini e delle donne, non degli attori cinematografici: e così, naturalmente, si valicava il confine che divide la rappresentazione dalla realtà, e si otteneva quella commossa partecipazione che tanto di rado incontriamo, e che è certamente il grande segno dell'arte. Anche in un film nel complesso mancato, come La Marseillaise, Renoir riusciva qua e là a darci il suo tocco indimenticabile: le truppe realiste schierate coi loro cannoni nel cortile delle Tuileries erano veramente dei soldati di Luigi XVI così come un tempo la, popolazione di Parigi li aveva visti, e Pierre Renoir, passandole in rassegna, esprimeva le stesse trepidazioni e incertezze e malinconie, che l'ultimo re di Francia aveva provato.
Come abbiamo detto, Visconti porta alle estreme conseguenze quanto Renoir aveva in parte già asserito: particolarmente nel suo ultimo film, Bellissima, tale sua tendenza è visibile, nell'assorbimento del dramma in una serie di grandi scene corali, da cui il dramma stesso torna a emergere, con una carica ancora maggiore. Alla base di questo atteggiamento sta, naturalmente, un presupposto di natura filosofica, di una filosofia complessivamente negativa: ogni manifestazione umana, o meglio ancora, ogni aspetto del nostro mondo è di per sé naturalmente valido, per il semplice fatto che esso esiste e che noi ne dobbiamo tener conto. Ogni giudizio d'indole morale ci è in un certo senso precluso, perché un giudizio morale presuppone una scelta, e noi non possiamo fare scelte nel mondo, ove tutto è ugualmente giustificabile, e praticamente non esiste bene assoluto né male assoluto. La gente nasce, cresce, muore, dopo aver combattuto vanamente, quasi sempre sotto il dominio del sesso, senza aver capito bene il perché della sua battaglia, la quale in fondo, e il regista lo sa benissimo, non ha nemmeno un perché.
A una analisi del genere mi si potrebbe rispondere, e controbattere, con un titolo, La terra trema. E io non saprei cosa obiettare sostanzialmente, se non che La terra trema a me sembra, per molti aspetti, il meno viscontiano, per dir così, dei lavori di regia di Luchino Visconti; confluivano in esso dei presupposti politici molto evidenti, direi quasi esterni, che certamente il regista sentiva, ma che in un certo senso indirizzavano già il film, lasciandogli minore autonomia. Tra Verga da una parte e Pudovkin dall'altra, Visconti mi è parso muoversi meno a suo agio; e, in ogni modo, era sempre ben chiara la sua visione del mondo, sostanzialmente negativa, così da non dare adito alla possibilità di un vero ed effettivo lieto fine, ma solo a una affermazione di ritrovata coscienza dei propri doveri. Affermazione quasi positiva dunque, che però non ci è dato dedurre da Ossessione, né da Bellissima e neppure dalla scelta di lavori teatrali come Morte di un commesso viaggiatore o Un tram che si chiama Desiderio o Le tre sorelle o I parenti terribili; per conto nostro Visconti, a parte l'approfondimento innegabile e l'innegabile evoluzione della sua arte, è rimasto fondamentalmente, come clima spirituale, a quella che, con un termine convenzionale, potremmo chiamare Francia 1938: quelli, evidentemente, sono stati gli anni veri della sua costituzione, e gli anni successivi non hanno fatto altro che completare e perfezionare una concezione ed un gusto già solidamente formatisi.
Nel titolo del presente articolo, accanto a Renoir e a Visconti, figura anche Michelangelo Antonioni: con ciò non si è inteso fare un accostamento sul piano dei valori puramente artistici, perché paragoni del genere sono impossibili oltre che inutili. Il nome di Antonioni mi è venuto invece alla mente per contrasto, come un esempio di totale opposizione ai criteri artistici di Visconti, e con il raggiungimento di risultati di singolare validità Il giudizio morale infatti, che Visconti sospende o addirittura omette, in una vasta comprensione degli infiniti moti dell'animo umano, diventa per Antonioni canone artistico: sulla base di un giudizio morale appunto, sempre presente e sempre severo, Antonioni dirige i suoi film, e l'apparente distacco, la freddezza cristallina con cui egli prende in esame ciò che giudica non implicano meno, per questo, una convinta profondità di sentire.
Nell'ultimo suo film, La signora senza camelie, il giudizio è chiaro e implacabile, espresso con un'insistenza eccezionale, sino alla condanna definitiva: la protagonista paga fino in fondo la sua posizione e il suo tentativo di evasione, tornerà a interpretare i film che essa odia, perderà definitivamente il marito e cercherà, proprio lei, l'amante che non la comprende e che essa disprezza. Nei film di Visconti le cose accadono perché accadono; in quelli di Antonioni le cose accadono perché devono accadere: si paragoni Bellissima con La signora senza camelie, e si vedrà con quanta diversità è stato visto l'ambiente cinematografico. Da una parte, sole polvere fracasso confusione folle variopinte e chiassose: dall'altra, gruppi di gente ferma sotto un cielo lindo di pioggia recente e di altra pioggia prossima, e tra questi gruppi si aggirano i protagonisti, ben distaccati da essi, anzi da essi acquistando valore e risalto.
La posizione morale dei due registi non potrebbe venire più chiaramente definita: scorgiamo vivi, in Antonioni, gli insegnamenti della scuola classica tedesca, con i suoi richiami a Reinhardt ed alla sua scientifica manovra delle masse corali, con la sua ricerca della "Stimmung" attraverso i motivi atmosferici, della notte e della pioggia; e i personaggi sono sentiti proprio così come il teatro classico ed il cinema classico germanico li sentivano, astratti ed elevati, quasi un simbolo del personaggio stesso, minuziosamente reali, come appunto avveniva in certe opere di Murnau per esempio. Non c'è, nei protagonisti di Antonioni, l'incertezza fondamentale nei confronti di se stessi, la coscienza del proprio male esistente accanto al bene, il dubbio trepido sul peccato presenti sempre in Visconti: c'è un atteggiamento diverso, il vigore di chi combatte il dubbio in omaggio a una legge morale che egli sa essere vera, e a cui tutto riconduce, senza esitazioni sulla sua validità.
Nessuno dei due, naturalmente, deve soltanto alle sue idee la propria qualità e le proprie capacità di regista: tanto Visconti quanto Antonioni hanno ricevuto il dono dagli dei benigni, e lo esplicano secondo le proprie tendenze, senza che a noi sia lecito dire quale di esse sia effettivamente la migliore: possiamo semmai soltanto manifestare delle preferenze, di ordine strettamente personale. Ci è piaciuto tuttavia accostare questi due così diversi temperamenti, sulla base della analogia dello sfondo dei 1Qro due ultimi film presentati al pubblico, ed anche per rifare la vecchia ma sempre valida constatazione che all'arte si può giungere, fortunatamente per tutte le vie, purché l'ispirazione sia viva e presente nell'animo dell'autore.
Da Cinema Nuovo, a. II, n. 18, 1 settembre 1953.