In un vecchio film hollywoodiano qualcuno dice che «a ogni rintocco di campane a un angelo spuntano le ali». Quella battuta oggi fa venire in mente Maria Schell, un'attrice bionda e falso tonda che era un po' la Kidman degli anni '50.Credo infatti che nessuna attrice più di Maria Schell (morta ieri a 79 anni, dopo una lunga carriera di successo nel cinema inglese, tedesco, francese, italiano e americano) riuscisse a rendere lo sguardo, la fisionomia, la leggiadria danzante, la consistenza «metafisica» e l'impenetrabilità caratteriale di un angelo. Di chi si oppone, cioé, al male e non in base a imperativi «categorici», o al buon senso (che, come scriveva Trotsky, sono «forme prive di contenuto»), ma al progetto antagonistico (che è di classe e non di classe borghese) che punta, più o meno, alla «felicità più grande possibile per il maggior numero possibile di persone». Insomma di chi mette in scena, con sicura scienza e grande arte, tutte le potenzialità sovrumane di un fisico caduco, che lei riusciva a rendere fragilissimo (e, al confronto, Emily Watson sembra Richard Boone), portandolo sull'orlo della cecità, della pazzia, della disperazione d'amore, dell'umiliata e offesa che non ha bisogno di maledire il «patriarcato», perché il mostro è in via di estinzione. Perciò i suoi film si vedono poco, e non perchè sarebbero demodé, intrisi come sono di realismo sociale (Alexandre Astruc, nel sontuoso Una vita, da Maupassant, smorza, con lei, ogni provocazione anti-nouvelle vague), ma inquietano davvero. E il fratello-attore-regista Maximilian Schell lo racconta nella agiografia del 2002, Meine Schwester Maria, Mia sorella Maria, radiografando una carriera magnifica, dal viscontiano Le notti bianche ai western Cimarron e L'albero degli impiccati , dai tanti lavori televisivi (è anche la mamma di Albert Speer, in Dentro il Terzo Reich), perché il suo ritiro dal cinema nel `63 ammette eccezioni (Superman) e il suo esordio a 16 anni è nell'Inghilterra di Boulting, visto che la sua famiglia scappò da Vienna e da Hitler nel `38. Il buon senso di oggi direbbe che fu schiava dell'ideologia, visto che del fascismo (che racchiude in sé tutti i mali della nostra epoca) lei è l'antitesi pura. Il primo film importante di Margarete Shell, figlia dello scrittore Ferdinand Hermann Schell e dell'attrice Margarethe Noesi, si intitola, e non è un caso, La casa dell'angelo e è di Karl Hartl, ma è con il film pacifista L'ultimo ponte, di Helmut Kautner, che nel '54 vince la palma d'oro nel ruolo di un medico tedesco che si trasforma in essere umano grazie alla cura riabilitativa dei partigiani titini. Lo consigliamo per una serata tv sulle foibe. La coppa Volpi la vince dopo, grazie a Réné Clément e alla sua lavandaia zoliana di Montmartre (Gervaise). Lvoreranno sulla sua irriducibile fragilità il Robert Siodmak, Richard Brooks (I fratelli Karamazov), Delmer Daves, Anthony Mann, Guy Green (sulla pedofilia), Pierre Chenal, Philippe De Broca...
Da Il Manifesto, 28 Aprile 2005