Marilyn Monroe (Norma Jean Baker) è un'attrice statunitense, produttrice esecutiva, è nata il 1 giugno 1926 a Los Angeles, California (USA) ed è morta il 5 agosto 1962 all'età di 36 anni a Los Angeles, California (USA).
Sua madre soffre di disturbi psichici, il padre "non è dichiarato" forse subisce violenza sessuale a dieci anni. Sono le premesse di una vita disordinata e difficile. Poi c'è la futura diva, che arriva alla Fox e viene usata in piccole parti. Fino al 1950 quando John Huston le attribuisce qualche posa in più in Giungla d'asfalto. Zanuck, gran capo della Fox, una sera la vede a un party circondata da tutti e domanda chi sia quella ragazza. Gli rispondono che è una sua dipendente. "Se è protagonista a una festa lo è certamente anche nei film". Marilyn esplode in Niagara. La camminata, di spalle, mentre si allontana dalla macchina, ha decretato il suo successo. Da quel momento interesserà i maggiori registi americani, soprattutto quelli della commedia: Wilder (Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace caldo), Hawks (Gli uomini preferiscono le bionde), Cukor (Facciamo l'amore). Ma la Marilyn più vera è quella di Fermata d'autobus, pieno di citazioni autobiografiche, come il successo voluto ad ogni costo: oppure quella battuta storica "gli uomini si sono interessati a me da quando avevo dodici anni". Sposa un mito americano dello sport, Joe Di Maggio, dura poco. Sposa un mito americano della letteratura, Arthur Miller, unione molto difficile, come sempre. Forse è amica del presidente Kennedy, e anche di suo fratello Bob. Insomma il solito disastro privato. Miller le scrive "addosso" Gli spostati, un'opera affascinante ma troppo letteraria. Sarà il suo ultimo film. Marilyn era molto dotata, cantava e ballava e toglieva la scena a vere cantanti e ballerine. Formosa, forse volgare, stupidina e ingenua, (nella vita come sul set) fuori dal proprio tempo e da tutti i tempi, Marilyn Monroe ha rappresentato inconsapevolmente una figura buona per tutti i sogni e per tutti i marketing. Molti libri di cinema, o sulle donne, o sulle icone, sintetizzando per la copertina una sola immagine, hanno scelto Marilyn. Piaceva agli occidentali, come ai mediorientali o ai cinesi che non l'avevano mai vista. Ha creato un precedente per sempre, quello sessuale, che è molto importante. Naturalmente.
"Ti dà l'impressione di poterla accarezzare stendendo una mano": quest'effetto facevano le foto di Marilyn Monroe a Billy Wilder, al grande Billy Wilder che la diresse in Quando la moglie è in vacanza (1955) e in A qualcuno piace caldo (1959). Oggi, dopo trent'anni, ci accade ancora lo stesso con i suoi film: tra la sua immagine e lo spettatore sembra non esserci alcuna distanza, come se bastasse stendere una mano… Di certo per nessun'altro mito dell'immaginario cinematografico vale come per lei questa "contiguità " con il nostro desiderio, questa impressione di "contatto". Marilyn esce dallo schermo ed entra nei nostri occhi con una leggerezza naturale e immediata. Eppure, il suo personaggio e il suo corpo non sono affatto naturali e immediati. Al contrario, sono il punto d'arrivo di una costruzione durata anni, di una intelligenza d'attrice che solo lo stereotipo della dumb blonde, della bionda stupida o dell'oca bionda, ha potuto nascondere. Alla riscoperta di quell'intelligenza va ora un bel libro di Erica Arosio ("Marilyn Monroe", Multiplo Edizioni, Milano 1989, pagg. 176, L. 30.000; accompagnato da un'audiocassetta con 14 brani cantati da Marilyn). Marilyn Monroe è un'appassionata ricostruzione di un sogno contrastato e sfortunato: raggiungere il successo anche attraverso la bellezza, ma non solo; ottenere il rispetto che si merita un'ottima attrice; convincere che "bella e stupida" è un pregiudizio infondato e, esso sì, stupido. Quasi per risarcirsi della solitudine dell'infanzia e dell'adolescenza, Norma Jean Baker Mortenson - questo era il suo vero nome - per tutta la vita usa il corpo per piacere, per ricevere consenso. Così da castana si fa bionda, si fa modificare il naso ed evidenziare il mento. Sa di avere i fianchi troppo tondi, ma sa anche che, accentuandone la linea, questo difetto si trasformerà in un pregio. Insomma, Norma Jean crea Marilyn Monroe, la modella con tenacia. E la sua grandezza sta nel dar l'idea che questo complesso artificio sia invece solo spontaneità e naturalezza. La creazione non si ferma qui. Scandalizzando Hollywood, quando è già all'apice del successo decide di frequentare i corsi di recitazione di Lee Strasberg all'Actor's Studio. Si cimenta addirittura con il teatro. E a chi gliene chiede i motivi, risponde: "Ho visto i miei film". Una risposta che, da sola, confuta per sempre l'accoppiata "bella e stupida". Alla fine, quel che vien fuori è l'immagine di una donna capace di far sognare l'uomo comune degli anni 50 (e non solo), di attirarlo con una bellezza strepitosa e insieme di non spaventarlo, quasi che Marilyn fosse accessibile come una dattilografa, per quanto diva. Ma - suggerisce Arosio - la maggiore grandezza di Norma Jean Baker Mortenson sta nella capacità di aderire perfettamente allo stereotipo dell'oca bionda, e insieme però di farne una sublime, definitiva caricatura. Questa ambiguità - osserva molto giustamente Arosio - la rende non imitabile, non ripetibile: con lei, la dumb blonde giunge "al suo punto di non ritorno". Ecco perché non ci sarà una seconda Marilyn, come invece lei stessa all'inizio fu una seconda Jean Harlow. In questa ambiguità, però, sta anche il dolore di un sogno che non si realizzò. E forse proprio questo dolore ha suggerito a Pier Paolo Pasolini le parole più belle per la sua morte: "Del mondo antico e del mondo futuro era rimasta solo la bellezza e tu, povera sorellina minore (...) quella bellezza l'avevi addosso umilmente (...). Sparì come un pulviscolo d'oro". Da Il Sole 24 Ore, 26 Novembre 1989
Non ci sono canzoni per Zelda Zonk. Ce ne sono per Marilyn, ce n'è una anche per Nonna Jean, niente per Zelda. Era solo un nome su una carta d'imbarco, uno pseudonimo sul volo Los Angeles-New York, alla fine dei 1951. Lo portava una donna con vistosi occhiali scuri e una parrucca nera a coprire i troppo noti capelli biondi. Era nata Norma Jean Mortensen nel giugno del 1926. Sarebbe diventata legalmente Marilyn Monroe nel febbraio del 1956. Ma in quel limbo aveva scelto un altro nome, a metà tra letteratura e fumetto. Zonk come un suono onomatopeico, Zelda come la donna di Francis Scott Fitzgerald, deciso leggendo la dedica all'inizio del Grande Gatsby. Stava volando a New York perché aveva divorziato da tutto. Aveva lasciato la Fox e gli studios, stanca dei ruoli da svampita sexy che le proponevano. Nella circostanza le uscì una delle frasi più efficaci della sua vita: «Hollywood è quel posto dove pagano migliaia di dollari per un tuo bacio e cinquanta centesimi per la tua anima». Aveva lasciato Joe Di Maggio, il marito che l'aveva sognata troppo moglie. Ma soprattutto voleva divorziare da se stessa: non essere più Marilyn, ma Zelda, attrice di teatro, lettrice di Cechov padrona di New York e del suo destino. Non ci riuscì. Pochi mesi ed era di nuovo sul set, di nuovo sposata e poi divorziata, di nuovo Marilyn.
È difficile raccontarla senza scadere nel pathos. Qualche volta ci è scivolata perfino la grande Joyce Carol Oates nel suo monumentale ritratto Bionde. Marilyn era, per chiunque, se stessa inclusa, una trappola. Gli anni newyorkesi sancirono la fine delle illusioni: non era un'attrice da palcoscenico, era più adatta ai drammi che ai drammaturghi, era forever Marilyn e non sarebbe mai stata Zelda. Zelda visse una breve stagione, poi riconsegnò Marilyn alle commedie di Billy Wilder; agli amanti tenebrosi e a quelli potenti, a un finale tanto tragico quanto scontato.
La passeggera Zelda Zonk sbarco a NewYork con un preciso intento diventare un'altra. Marilyn aveva avuto, al cinema, tutto il successo che un'attrice poteva desiderare. Abbandonano per rimettersi in gioco era una tentazione troppo umana e assolutamente americana. Un europeo può indugiare anche due vite negli stessi panni, un americano non vede l'ora di toglierseli, soprattutto se lo vestono a perfezione. Sei Michael Jordan, il miglior cestista di tutti i tempi, ti ritiri e cominci a giocare a baseball perché convinto che solo così avrai l'immortalità. Sei John Grisham, il migliore scrittore di legal thriller mai pubblicato, ogni libro un best seller e un film di successo, e ti metti a cercare di scrivere il Grande Romanzo Americano. Sei Marilyn Monroe, polverina magica che fa che fa frizzare lo schermo e sbarchi a New York camuffata da Zelda Zonk perché vuoi recitare, essere presa sul serio, decidere i tuoi ruoli e i tuoi comportamenti, lontana dalla Fox e da Joe Di Maggio.
Quell'anno, mesi prima, New York non era stata gentile coni Marilyn e con il suo allora marito Joe. Aveva lasciato brutti ricordi, fissati a una grata della metropolitana all'angolo tra Lexington Avenue e la 51na, nella notte del 15 febbraio. Per gli anni, i decenni a venire milioni di persone avrebbero guardato una fotografia: la bionda con il vestito e i sandali bianchi, il soffio caldo dal sottosuolo che le alza la gonna, le rimane che abbassarla per proteggersi dagli sguardi. I poliziotti di New York avevano messo le barriere alle dieci e trenta della sera, bloccato il traffico, non la gente. Migliaia, quasi tutti uomini, si erario accalcati, arrampicati sui muri, appesi ai lampioni, per vedere. La razza guardona e la sua condiscendente preda. «La ragazza senza nome, la ragazza senza memoria», scrive Joyce Carol Oates. Troppi nomi, invece, e troppi ricordi da cancellare. Questo è soltanto uno che sta per aggiungersi. La folla con il sesso negli occhi pasteggia sbavando per ore, la sessione fotografica va avanti fino alle tre del mattino. Le luci artificiali ricreano il giorno, accendono i visi. Uno solo rimane di pietra: appartiene a Joe Di Maggio, l'uomo che guarda una città in orgasmo con sua moglie. Quando tutto è finito la riporta nella suite al Waldorf Astoria senza una parola. Quando tutto è finito la rabbia comincia. La Bionda è una bambina disubbidiente che sa quello che l'aspetta. Come on, lo sa da quando ha accettato di recitare questa parte fuori ruolo: la brava mogliettina di un italiano che ha abdicato al trono, ma ancora siede sui cuscini di
presunzione. Di Maggio è un babbo feroce nella sua convinzione di legittimo proprietario. La colpisce più volte, con il consueto, letale slancio del braccio, la sbatte lontano da sé: dolce come ogni fuori campo», scrive la Oates. Poi hanno inventato il politically correct ed emesso condanna
postuma per quel gesto, ma allora tutto deve essere sembrato così ineluttabile.
Quando torna a New York Marilyn-Zelda ha giurato a se stessa. mai più uno zotico senza cultura, mai più uno che non sia americano, che non sia tanto, ma tanto sensibile. Nei primi mesi si iscrive all'Actors Studio. Va a lezione da Lee Strasbeng, che nominerà suo erede nel testamento precocemente aperto. Nei primi mesi va a fare shopping da sola, sulla Madison Avenue. Un ragazzo di 14 anni, di nome Peter Mangone, la riconosce e la filma con la sua telecamera, per un giorno intero. La pellicola verrà ritrovata più di quarant'anni dopo, dal fratello. Nelle immagini Zelda-Marilyn recita. La sua parte è: «Vorrei essere una qualunque». Ma se voleva quello le bastava restare Norma Jean Mortensen. Si è presa la fama, ora vuole di più: il rispetto. Vuole essere ammirata non solo per quel che c'è all'esterno. Legge Cechov. E lo cita. Vuole recitare. Vuole un testo che le tiri fuori l'anima. A forza e non per i 50 centesimi di Hollywood. Vuole un passaporto per l'Olimpo. Vuole un uomo che ci metta il timbro sopra, con le sue parole su misura. Vuole, scoprirà, Arthur Miller. Fonda la propria compagnia di produzione, per affiancarsi dagli studios. Va a un provino per una parte in teatro. Ma non è un vero provino. La parte è già assegnata a lei. È Marilyn, altroché Zelda, il suo nome da solo riempirà la sala, sera dopo sera. Basta che la sala non sia troppo grande, perché la sua voce non arriva lirici al fondo. Non ce la fa. L'autore del testo è seduto nell'oscurità, ma abbastanza vicino da sentirla. Pensa sia inadatta per la parte. Ne è sicuro, Arthur Miller. Pensa che sarà un guaio. Non immagina quanto. E quanto lui ricambierà. Lei lo sposerà civilmente nel giugno del 1956. Poi lo farà religiosamente. Per lui si convertirà all'ebraismo. Per Joe Di Maggio si era offerta di convertirsi al cattolicesimo. La prima volta che leggerà i sacri testi ebraici si stupirà che siano «tanto simili alla Bibbia». Starà a fianco del marito durante l'inquisizione maccartista e lo salverà dal “rogo”. Lui scriverà che «è meraviglioso averla intorno» e poi non ce la farà più a sopportarla. Lei capirà in fretta che di «pane e Cechov» si può vivere, ma non alla grande. Michael Jordan è tornato al basket, Grisham ai legal thriller, Marilyn a Hollywood. Addio palcoscenico, addio Arthur Miller, addio New York. Addio Zelda Zonik.
Marilyn Monroe. Perché citarla? Tutto è stato detto e tutto - di scottante - è stato messo a tacere. Ma ecco una notizia all'americana. Un giudice donna di Los Angeles ha tolto agli eredi ogni diritto alla sua immagine. Roba grossa, verdoni a palate. L'eredità andò alta famiglia di Leo Strasborg, maestro dell'Actor s Studio, che ha incassato finora trenta milioni di dollari. Da aggiungersi la vendita di accessori: souvenir e via dicendo. Quelli delta "Mmllc",gestori dell'eredità, hanno le mani nei capelli. Ma cosi è. Il Tribunale di Los Angeles ha decretato che Marilyn, al tempo del decesso, risiedeva a New York, e a New York i diritti di una star si estinguono con la sua morte. La diva, insomma, è di assoluta proprietà della capitale, ..è.. la città capitale. Anche con i suoi nudi più ó meno clandestini, anche con le prove, decisamente azzardate. Se una legge simile esistesse in Italia, che potrebbe accadere? Con le dovute differenze sessuali, chi potrebbe essere Roma? Petrolini o Anna Magnani? E se fosse in Francia? Edith Piaf? Fatto è che, per la prima volta, una donna diventa, non solo simbolicamente, una metropoli. Grazie (si fa per dire) alla sua morte, non alla sua vita che fu, da ogni punto di vista, hollywoodiana. Nasce un sospetto. Non sarà che, sotto sotto, c'entrano in qualche modo gli sconcertanti segreti che Marilyn si portò nella tomba? O quel tanto di segreto che ancora resta sui rapporti con i fratelli Kennedy? Se saltasse fuori qualcosa. Chi potrebbe in qualche modo parare i colpi dell'avido delirio delta stampa non soltanto scandalistica?
Da Corriere della Sera Magazine, 10 aprile 2008
Non posso andarmene a vedere L'ultimo amante o Il grido del sangue, mentre Marilyn Monroe sposa il collega Arthur Miller. No, no, che diamine. C'entro come spettatore, c'entro come giudice di film, c'entro come scrittore e c'entro come uomo. La mia più calda e urgente opinione è che le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese. Questo matrimonio favoloso è un diploma, una medaglia, un titolo d'onore per chiunque viva di penna. Badate, scherzo e non scherzo. Prima delle annunziate nozze letterarie di Marilyn, le Veneri dello schermo appartenevano, legalmente o no, di riffe o di raffe, all'alta finanza o all'aristocrazia. Veniva un principe o un banchiere, un rajah o un ,produttore (gente che non di rado ha un cece dove noi abbiamo i sentimenti più teneri e più difficili) e se le annetteva. Qualche volta era un compagno di lavoro ad aggiudicarsele (mamma mia bella, gli intelletti e la finezza di certi famosi attori!) o un suburbano, lucido Rubirosa, nutrito dai genitori e dagli amici in attesa di una moglie che sfacchinasse per lui. Diciamolo, coraggio: non soltanto con i loro torbidi e vacui film, pieni di maiuscoli globi nelle camicette e altrove, parecchie Veneri cinematografiche dimostravano la loro indigenza mentale; anche i loro gusti (o le loro pazienze) in fatto di vincoli amorosi, erano un grigio sintomo di invalidità spirituale. È una dura lezione, perciò, quella che oggi impartisce Marilyn alle sue tonde emule dei vari paesi; e lasciatemi dire viva Marilyn, viva.
La donnissima impalmata dall'autore di Morte di un Commesso viaggiatore non ha stentato a capire, in qualche anno di cinema, che la bellezza non è un punto di arrivo, per una attrice, bensì un punto di partenza. L'ineguagliabile mammina di Cupido ci stanca e si stanca. Ogni piacere dei sensi è fuggevole, precario; i film ideati unicamente per i vezzi dell'interprete,: ci consumano e la consumano. Gli ipercritici già sentenziano che la Monroe ha l'epidermide oleosa, un presagio di bargigli e, sul collo, tutta una vigilia di rughe. Perché no? Ma le ingiurie del tempo al suo fascino arriveranno, immagino, troppo tardi. Lei sa, ora, come fronteggiarle e vincerle. Ha molto camminato e molto appreso, la belva dei canapè . Fu una bambina sfortunata, a me parlatemi di ambasce infantili e mi avrete in pugno, sarò vostro. Ah, ah, si muove ancheggiando, ma non lo fa per seviziarci, lo fa perché ebbe, da piccola, non so che guaio alle caviglie. Poi, aveva otto anni, ciabattò in un orfanotrofio. Dodicenne, fu servetta qua e là. Marilyn, lo straccio; Marilyn, le pantofole al signore. I munifici doni che successivamente le fece la pubertà, li conosciamo, li ha divulgati il cinema, per essi il mondo sospira come una zampogna forata. E del suo cervello, che succedeva frattanto? Il marinaio Dougherty, che la inaugurò coniugalmente (lo possano uccidere, come diciamo a Napoli), sostiene che Marilyn era sciocca, non la divertivano le sue barzellette. Figuratevi, l'umorismo dei supplementi domenicali dei quotidiani d'America, assimilato da un rozzo navigante; che spasso. E Joe Di Maggio? Non crede all'ingegno di Marilyn, dice che la sua ex-moglie non capiva gli intrecci dei libri gialli. Un dramma, per questo nerboruto giocatore di base-ball; egli fu magari privato dell'unico argomento che, fra le pareti domestiche, poteva gettare come la scimitarra di Brenno sulla bilancia della conversazione. Il Di Maggio non resistette che due o tre mesi a una vita senza il conforto di Spillane; Marilyn,' disincagliatasi da Joe, cominciò a riflettere, intuì di quante donne si compone, anzi deve comporsi una vera donna.
“Mi lavo?”, si disse. “Mi affido per lunghe ore ai sarti e ai parrucchieri? Mi trucco e mi profumo? Ho gioielli, pellicce, il meglio del meglio, per accentuare l'avvenenza mia? E allora è necessario ch'io faccia qualcosa per la Marilyn che non si vede alla prima occhiata, per la Marilyn avvolta nella mia rara e sofisticata bellezza. Dunque, mi piglio una "maestra di pensiero" e frequento i corsi di ‘recitazione dell'Actor's Studio a New York, diretti Elia Kazan”. Vi piace? Questo ideò e questo fece, la belva dei canapè . Ignoro ciò che effettivamente sia, laggiù, una "maestra di pensiero". Che, alla lettera, insegni a , pensare? Quanto bisogno ne avrebbero, in tale caso, molti produttori e artisti e registi indigeni di mia conoscenza. Ma fermiamoci a Marilyn. Imparava, e come, la biondona. Fu vista nella Biblioteca di Los Angeles, ai concerti e nelle esposizioni di quadri. Comprò, invece di una collana di perle, i volumi di teatro raccolti da Reinhardt. Scopri Tolstoi e gridò che era meraviglioso. (Però anche il redivivo Tolstoi, potendo scoprire lei, emetterebbe lo stesso urlo). Sostituì a Vogue e a Photoplay, sul comodino, le opere di Aristofane. Giurò che la faccia di Einstein era più invitante della faccia di Marlon Brando, le assegno una cornicetta d'argento e una mensola. Tanto brigò che ottenne una regia di Olivier. Infine, si invaghì di Arthur Miller.
Non ditemi che si tratta, nuzialmente, di un quarantenne come un altro. Eh no. Ammetterete che l'esercizio sviluppa gli organi. La forza di un pugile non è quella di un comune uomo della sua taglia; idem la sensibilità di un romanziere o di un commediografo o di un poeta, il quale ha man mano conseguito una eccezionale capacità di soffrire e di godere le cose. Egli anima perfino gli oggetti, dà un volto alle astrazioni e concretizza i sogni. Egli agghinda e trasfigura il mondo, no? Ebbene, il metro della bellezza femminile non è assoluto, non ha proporzioni fisse, ma varia enormemente. L'elettricità si calcola in volts, la bellezza femminile in sentimento della bellezza femminile. Che diavolo sapremmo della grazia di Laura, se in centinaia di squisiti madrigali Petrarca non ce ne avesse lasciato le impareggiabili misure? Dico a voi, nubili e maritate, dico a voi. Amore senza Psiche è un sudicio bruto, dal quale non apprenderete mai se e quanto siete belle. Marilyn sa oggi che uno stradivario grattato da un bracciante non e che l'ombra di un'ombra di violino. Perciò essa affina la sua intelligenza e perciò sarà moglie di un letterato. Hanno voglia, i giornali, a pubblicare che Marilyn ricevette i cronisti indossando "pantaloni alla toreador molto aderenti" (che dovrebbero fare i calzoni .addosso a lei? Aderiscono, è ovvio, con tutta l'anima) e che alla domanda: “Avrete bambini?”, ella ha risposto: “È probabile”. Gesù, me la figuro, una donna ormai avvezza ai classici, in quel cerchio di melensi galoppini della stampa gialla di New York. Marilyn, perché non li hai presi a calci? Non avremmo avuto più dubbi sulla tua metamorfosi, la gioia ci avrebbe paralizzati.
Da Giuseppe Marotta, Marotta Ciak, Milano, Bompiani, 1958
Scusate, debbo tornare sulle nozze di Arthur Miller con la belva dei canapè . Un recente elzeviro di Guglielmo Peirce mi obbliga a farlo. Ci guadagnate, d'altronde, se non vi parlo di film come L'agguato delle cento frecce e La vedova e Occhio di Linee. Dunque Peirce ha letto, nel numero 28 dell'Europeo, la nota che intitolai "Marilyn sposa Arthur per sapere quanto è bella", e l'ha bocciata; non sono d'accordo e debbo dire la mia, scrive. Perché no? Ci mancherebbe che avessimo tutti l'identica opinione dei matrimoni o dei conoscenti nostri. Ma don Guglielmo comincia dando per certo che io abbia gridato "Ti ringrazio, Marilyn; anzi gli scrittori italiani ti ringraziano". Egli altera, com'è purtroppo nostra abitudine in ogni discorso, gli argomenti dell'interlocutore; se li aggiusta in modo che gli riesca più facile abbatterli. Don Guglielmo, ciò (come si dice a Napoli) non è da voi. In verità io fui generico, dissi: “Viva Marilyn per la dura lezione che impartisce a certe sue rivali” e dissi: “Le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese”. Era (e alquanto scherzoso) il parere mio, nel quale non ebbi intenzione di coinvolgere gli scrittori italiani. Posso augurare a me, si è ciechi sul proprio conto, una Marilyn Monroe; in braccio al collega Tizio o Caio (meglio non far nomi) la troverei spaesata.
A me non duole essere contraddetto; ma non è agevole intendersi con Peirce. Egli mi boccia e poi dichiara: “Ha fatto molto bene Marilyn a sposare uno scrittore. Gli artisti debbono avere i più bei frutti della pianta donna. Ma ha fatto male, molto male. Arthur a sposare Marilyn. Doveva rimanere con la moglie e i figli nella sua villa, a scrivere. L'imperativo categorico di uno scrittore è quello di scrivere, non quello di fare il marito di belle, giovani, dinamiche attrici. I mariti delle belle, giovani e dinamiche attrici debbono essere anche loro giovani, belli e dinamici. Solo così le coppie si possono pareggiare sullo stesso terreno”. Mamma mia. Come diavolo fanno tanti controsensi a vivere in un piattino, in un cucchiaio di spazio? Ad Arthur Miller spettavano i più bei frutti della pianta donna, ma senza che egli negligesse un attimo la famiglia e la casa. Ne deduciamo che ogni mattina, verso le dieci, Mrs. Miller e i ragazzi avrebbero dovuto porgergli, in un vassoio, la Monroe o la Hayworth o la Gardner quotidiana. “Arthur, è per te”. “Guarda che meraviglia, babbo”, e così via.
Quanto al "pareggio delle coppie sullo stesso terreno", guai a chi lo tenta. Vogliamo, caro Peirce, una di queste notti, pregare il demone zoppo di Lesage che ci faccia dare un'occhiata nelle abitazioni dello scemo che ha sposato una scema, o del romanziere coniugato a una romanziera, o del bottegaio marito di una bottegaia? Vogliamo, in tal modo, avere un'idea sufficientemente aggiornata dell'inferno? Andiamo, non c'è risultato più infelice, più tetro della parità, del gemellaggio sul piano degli incontri sessuali. I giovani con le giovani e i dinamici con le dinamiche e i belli con le belle si addicono all'amicizia o a una fuggevole passione; l'arduo, lungo matrimonio esige invece corpi e anime diversi, antitetici, una luna per una terra e una terra per una luna. Caro Peirce, e agosto, cielo e mare e sassi e zolle bruciano, venite con me, troviamoci una carità d'ombra che ci ristori come a Natale il caminetto dei nonni, avviciniamo piedi e mani a irreali, magici alari di ghiaccio, vi racconto la fiaba dell'amore coniugale, anzi dell'amore in genere. E cioè: beato chi sa essere dal principio alla fine il contrario dell'individuo che ha scelto e che lo ha scelto. Beato chi gli rimane, in parte, almeno, incomprensibile e ignoto e imposseduto. Un efficiente matrimonio vive degli assidui, fervidi tentativi di un uomo e di una donna per incontrarsi, mondi lontani e astrusi l'uno per l'altro, a mezza strada. Non ci riescono mai del tutto, e questo puntuale insuccesso, anche se apparentemente li cruccia o li irrita, è la calce dell'unione loro. Il tempo incalza, precipita, ma ciascuno di essi, fino all'ultimo, è un protagonista, un eroe del soave dramma che ha voluto. Il matrimonio dei simili, caro Peirce, è invece un matrimonio di comparse. Dura e si consuma nel tedio e nel rancore, quando provvidenzialmente non lo interrompe l'arsenico o il revolver. “Infame, restituiscimi la curiosità del maschio per la femmina” (o viceversa), mormora il coniuge-fratello (o sorella), premendo il grilletto o versando la polverina.
Don Guglielmo, inoltre, dice: “Nelle fotografie, Miller sembra una specie di ripetitore, di impiegato dell'attrice. Ha mille ingrate incombenze che non hanno niente a che vedere con la poesia. Io non credo che accompagnando la moglie qua e là Miller possa scrivere capolavori. Non è vero, Tennessee Williams? Mi dia almeno ragione lei. Miller non doveva sposare Marilyn. Marotta ha ringraziato Marilyn (che, tra l'altro, non è neanche bella; sono molto più belle Sofia Loren e la Pampanini) a nome di tutti gli scrittori italiani. Senza permettermi tanto, dico: Arthur, hai fatto una solenne sciocchezza. La poesia non nasce facilmente correndo dietro a una bella e giovane moglie, magari con le sue valigie in mano, forse piene di abiti e profumi della sposa. La valigia dovrebbe essere la tua, e piena di libri. Ma ormai la sciocchezza l'hai fatta, e che Dio ti assista”.
Obietto ciò che segue. Chiunque, pure Shakespeare o Dante redivivo, sembrerebbe, accanto a Marilyn in una fotografia, lo zio Nessuno. Le mille "ingrate incombenze", Arthur probabilmente non le ha ma se le piglia, e gentile, è innamorato, è in viaggio di nozze. La poesia come fatto concreto, di lavoro, per il momento egli l'accantona, mi domando chi si regolerebbe diversamente nei panni suoi. Nemmeno io ritengo che Miller, seguendo Marilyn a Londra o a Cuba o a Zanzibar, possa creare simultaneamente opere geniali; ma egli, a un certo punto, smetterà di seguirla. Oppure s'invertiranno le parti, lei andrà con lui e con una risma di fogli in una capanna iell'Ohio. Intanto Miller gode le sue nozze. È uno scossone, l'urto degli urti, il sommovimento dei sommovimenti psichici e fisici... don Guglielmo, ne converrete. L'effetto di esso non può, sul commediografo e sul narratore, essere immediato. L'arte non è cronaca, non è immersione. È invece un lento, vago riaffiorare di sentimenti, di conoscenza: è memoria. Si vedrà se Marilyn ha nociuto o ha giovato all'arte di Miller. Che altro? Il: giudizio di Tennessee Williams, favorevole o no a Peirce, mi lascia freddo. Poco si sa della vita amorosa dell'autore della Rosa tatuata. Per me, Arthur doveva sposare Marilyn e come. Essa è infinitamente più bella delle tre o quattro massime Veneri cinematografiche. Non ha solo un volto e una figura graziosi, ha carattere e, giurerei, ha ingegno, stile. Dunque, auguri, Miller.
Da Giuseppe Marotta, Marotta Ciak, Milano, Bompiani, 1958
Il generale a riposo Amerigo B. mi disse: «Ho per Marilyn Monroe un vivo interesse, che molti miei colleghi, appartenenti anch'essi alla riserva, condividono pienamente. Conosciamo tutti i suoi film; la nostra memoria, squisitamente (non invano si è chi si è) topografica, ne ha ritenuto e ne rielabora ogni aspetto. Nel caffè dove ci raduniamo la sera, infatti, Marilyn è l'argomento principale dei nostri dibattiti. La politica ci ha stancati; qualsiasi ipotetica guerra, essendo le armi attuali segretissime, non offre appigli alla nostra scienza specifica. Nei futuri conflitti prevarrà la macchina, e l'uomo (del quale noi studiamo il più razionale impiego) non avrà peso. Invece per Marilyn Monroe l'uomo è tutto. E quindi essa appartiene di diritto e di fatto ai generali. Ma la osservi, prego. Non a caso il poeta biblico affermò che la Sullamita era un campo a bandiere spiegate. Marilyn evoca, dalla testa ai piedi, immagini epiche. Lo dicevo, ieri, al mio ex-comandante Gualtiero B. Noti, gli dicevo, l'ampiezza, la varietà, le modulazioni, la planimetria di questa ineguagliabile donna. Marilyn ha tutte le risorse di un terreno campale. Dove, se non qui, un tattico o uno stratega può vincere o perdere le sue fondamentali azioni? Quei capelli biondi, assolati, che lampeggiano come una stesa di grano inquadrata nel binocolo di un condottiero; quelle guance chiare, lisce come le aie; quella bocca rossa e umida come un fondovalle; quegli omeri larghi e quel petto ripido, maiuscolo, da truppa di montagna; quella stretta fulminea, sannitica, della cintola; quei successivi slarghi da invasione irreparabile, da bollettino di vittoria finale. Eh? Marilyn è la Venere degli Alti Comandi. Noi ci auguriamo che essa abbia trovato in Arthur Miller il suo Cesare. Vede, io non ho moglie. Non ebbi la fortuna di imbattermi in una donna che avesse le inaudite qualità di Marilyn Monroe, così vicine al mio spirito. Ebbi, nel '23, un breve idillio con una beneventana esigua, lieve, non più tanto giovane, la cui piatta configurazione in verità non suscitava che impulsi equivalenti a facili e scialbi movimenti di pattuglie. Nel '39 conobbi Enza, una pianista di Genova. M'illusi finché, nell'agosto, non ci capitò di recarci insieme al bagno, in uno stabilimento della Foce. Le detti qualche svogliata lezione di nuoto. Sulla spiaggia, mentre giacevo imbronciato al suo fianco, lei mi disse: Generale, sa che mi hanno paragonata a una porcellana di Sèvres? Io risposi: Lo, credo. Appunto, e mi alzai. Nelle mie parole scricchiolava, gemeva il presentimento di Marilyn Monroe. Lei è giornalista e ha magari occasione di vederla a quattr'occhi. La informi, sia gentile, che l'impressione dei miei colleghi e mia è che le donne abbiano cominciato ad esistere nei film che la ritraggono. Prima non c'erano che sommarie, vaghe premesse di Marilyn. Dia retta a me, signore: la bellezza femminile, come la guerra, o è armata fino ai denti, o non è. I pensieri attizzati da una Eleonora Rossi-Drago, o da una Lea Padovani, stanno ai pensieri dei quali Marilyn ci affolla, come una zuffa domenicale sta alla battaglia di Zama. Io ...».
Mi congedai frettolosamente dal generale Amerigo B., i cui giudizi erano, secondo me, di un tecnicismo opprimente. Il sole di luglio batteva infaticabilmente sulla città. Mi rifugiai all'ombra del monaco cercante Anselmo G.; è un'ombra giovevole, che sa di balaustra e di scanno... ha un odore confuso di incenso, di sudore, di tabacco, di legumi, di spezie. Gli detti il mio obolo e dissi: «Fratello, sai niente di Marilyn Monroe?». Tacque a lungo, poi disse: «L'abito che porto mi vieta di assistere ai pubblici spettacoli. Ma per Marilyn, una volta, sono entrato con panni borghesi in un cinema. Non debbono esserci ignoti, i mali della terra». Dissi io: «Marilyn è dunque un male? Nuoce alle donne, le sminuisce e le defrauda?». Anselmo G. rifletté un poco. Le sue maniche sterminate bevevano tutto il fragile vento che c'era. Disse: «In coscienza, no. Ti rispondo con fra' Galdino, ecco... Marilyn Monroe è come il mare, che riceve acqua da tutti i fiumi, e a tutti i fiumi la ridistribuisce. Hai capito? Marilyn con una mano toglie ma con l'altra dà... offusca ogni donna, ma ogni donna, contemporaneamente, s'illumina di lei. Diglielo, tu che puoi, alle ragazze meno belle o addirittura brutte: che nel proprio interesse, digli, la sopportino».
»Amen», risposi allontanandomi. Nella più vicina elemosina d'ombra c'era un accattone, Luigi O. fu Giacomo, sui quarant'anni. Lacero, ma robusto e velloso. Occupava dignitosamente uno sgabello portatile e aveva sulle ginocchia una ciotola visitata da una opaca moneta di cinquanta lire, la cui funzione di invito era palese. Gli detti gli spiccioli che avevo e gli parlai dolcemente. Dissi: «L'umana pietà che sento per te è accresciuta dal fatto che io interrogo la gente su Marilyn Monroe, e che tu hai sul petto un cartello sul quale mi sembra di leggere: Cieco dalla nascita. Ah Luigi, che pena. Guardo le tue palpebre sigillate e mi chiedo: la fama di Marilyn Monroe sarà egualmente pervenuta fino a quest'uomo? Chi, e quando, e come, avrà tentato di raccontare Marilyn al povero Luigi?». Sbirciai l'individuo, sospirando, e vidi che sulle tumide labbra gli si era posato, lieve lieve, il sorriso della Gioconda. Egli mi dette di gomito e disse: «Raccontare? A me? Vi prego... date un'occhiatina qua e là... c'è nessuno, in giro?». Non c'era anima viva, in quell'ora di fuoco, e glielo giurai. Che momenti. Sollevandosi a fatica, lentamente, come saracinesche, le palpebre di Luigi O. misero a nudo il più lucido e saettante paio d'occhi delle borgate romane. Gesù Gesù. Erano le pupille di un ipnotizzatore, di un derviscio. Godendone l'effetto su di me, l'accattone soggiunse: «Tutti dobbiamo vivere, no? I giornalisti hanno salutato, per vent'anni, romanamente. Avete forse il coraggio di negarlo? E io sacrifico gli occhi, per dieci o dodici ore al giorno, incluse le domeniche, alla mia fede sulla bontà del prossimo. È la vita, egregio signore, la vita. Ma, di sera, quando la vita smette di rompermi le scatole, quando insomma la vita sono io, chi può strapparmi a Marilyn Monroe? Vedo ogni suo film dieci, venti, cinquanta volte. La seguo nei vari locali, dal centro alla periferia; lo so, fotogramma per fotogramma, a memoria. Coabitiamo e conviviamo, io e Marilyn Monroe. Nel sonno, continuo potentemente ad ammirarla. E qui, sotto la mia volontaria benda, a chi diavolo credete voi, sentiamo, che io pensi? Mettetela al corrente, per favore: laggiù, a Roma, c'è un tale che su te chiude gli occhi e su te, immancabilmente su te, all'insaputa dei suoi centomila padroni, li riapre. Ah, quanto è bella, signore mio, quanto è bella. Marilyn è la ricchezza dei poveri, l'acqua degli assetati, il pane degli affamati, la vista dei ciechi, la libertà degli oppressi. Alla faccia degli scienziati d'oggi! Imbecilli... vogliono mandarci sulla luna ma non sanno come darci una Marilyn Monroe a testa! Eh, mio caro: solo Domineddio è capace di lasciar cadere, ogni tanto, un biglietto di questo incredibile taglio nella ciotola dell'umanità».
Ne convenni moderatamente e presi congedo. Cammina cammina, intervistai il professore di liceo Filippo D.L. a Fregene. Sollevava a tratti il capo da una logora edizione del Canzoniere del Petrarca, indi lo riabbassava pieno di viventi illustrazioni del volume, sulla pagina che stava leggendo. Era sui trentacinque, poroso e anemico. Disse: «Ridurre Marilyn Monroe alla pura e semplice bellezza di un volto e di un corpo femminili, è una infamia. Questa magnifica donna ha, probabilmente, un contenuto più raro dell'involucro. Suvvia, ragioni. Quando mai una splendida attrice del cinema si innamora di un commediografo, di uno scrittore, di un poeta? Si trattasse di un aristocratico, di un re del petrolio, di un celebre tenore, di un vezzoso diplomatico, di un grande sarto, di un elastico ballerino, di un immane pugile, niente di strano. Ma uno scrittore, andiamo. Un uomo che per apprezzarlo bisogna leggere migliaia di pagine sue, mentre il telefono squilla, i giornalisti incalzano, il parrucchiere attende. Un uomo che se gli si parla di gioielli e di moda, c'è e non c'è. Un uomo che spesso indovina le bugie di una donna prima che essa le abbia pronunciate, anzi prima che le siano venute in mente. Un uomo davanti al quale anche le albe e i tramonti, le Cascate del Niagara e le Ande, Capri e il Nilo, perdono la loro disinvoltura e hanno l'aria di balbettare: Siamo in ordine? Facciamo bene le albe e i tramonti, le Cascate del Niagara e le Ande, Capri e il Nilo? Sarà contento di noi il signor Arthur Miller? Non scherzo, egregio signore, non scherzo. Marilyn, sposando un eccellente uomo di penna, ha mostrato di avere un temperamento, un ingegno, un gusto, un'umiltà e una superbia fenomenali. Piuttosto che far ciò, qualunque sua collega avrebbe stoicamente seguito il boia verso la sedia elettrica». Vi fu una lunga pausa. Gambe femminili d'oro o di bronzo passavano e ripassavano davanti a noi sulla tenue sabbia, fra i violenti colori degli ombrelloni e le mascelle contratte dei Salvatori e degli Arena di San Giovanni e del Trionfale. Io dissi: «Ah. E lui, Miller?». Filippo D. L. aggrottò le sopracciglia. Disse: «Qui la faccenda cambia. Uno può essere anche un genio; ma se e contemporaneamente un uomo, e fissa Marilyn Monroe come io fisso, poniamo, una di queste comuni bagnanti, la sua genuina, dilaniante e magari tragica impressione è che il matrimonio sia stato fulmineamente e prodigiosamente inventato, dal nulla, un attimo prima».
E sia. Non ebbi il tempo di raccogliere fra l'indice e il pollice il brivido che le parole di Filippo D. L. avevano irradiato nella mia colonna vertebrale; come l'avrei serbato volentieri, in un astuccio dalla fodera di raso, per l'imminente inverno della mia vita! Il professore abbozzò un cenno di saluto e ricadde nel suo Petrarca. Quanto a me, avevo notato, lì vicino, il geometra Guglielmo N.; ventottenne, riformato per deficienza toracica, albino, egli reggeva sulle appuntite ginocchia la testa di Irma E., la sua fidanzata, immersa in un catalettico sonno pomeridiano. Gli bisbigliai qualche domanda su Marilyn. Disse, indicandomi l'inerte, sprovvedutissima ragazza: «Ma le pare il momento?». «Siamo uomini per qualcosa», obiettai. Usi la voce di un filo d'erba, non mi sfuggirà». E sì, e no, adottammo l'alfabeto morse: egli tamburellava col dito sulla mia spalla, io decifravo attento. Disse: «Marilyn Monroe, geometricamente, non è che la più lunga linea fra alcuni punti». Dissi: «Perfetto, ma lo sapevo. Roba da manuale. Io voglio brani di vita. Sputi il rospo, con me». Si addentò una mano, insanguinandola. «Irma è qua», riprese, «dal principio alla fine... la consideri, prego, la valuti. Ho dovuto ripiegare su di lei... che gliene sembra? Non tema di offendermi, sia brutale». Io dissi, francamente: «È una sorta di venerdì santo del proprio sesso... rendo l'idea?». «Limpidamente», rispose Guglielmo N., col pianto nel dito. «E io? Non ho alcun fascino virile. Non ho denaro. Non ho storia. La mia giornata si consuma fra i compassi e le righe. Tuttavia, sono giovane: di sangue veloce (non dia credito all'apparenza) e di accesa immaginazione. Marilyn Monroe è il mio sogno; Irma è la sola ragazza che non mi abbia respinto, anche perché siamo cugini e la zia mi appoggia. Cerco, strenuamente, di far sì che Irma accolga, riceva, indossi Marilyn. Ho questa fidanzata come una sarta ha il manichino. Mi ingozzo di Marilyn al cinema e poi dico: «L'una o l'altra, che differenza c'è? Entrambe non si radono, entrambe non hanno fatto il soldato». Oppure: «Nel 1989 sarà una vecchia e grinzosa moglie Irma, come sarà una vecchia e grinzosa moglie Marilyn. L'essenziale è che trent'anni scivolino via, l'essenziale è che si arrivi insieme, io ed Irma, al favoloso 1989. Dicendole ti amo, ingannerò l'attesa». Qui il geometra smise di picchiettare sulla mia spalla e furtivamente si asciugò una lacrima. Intanto Irma si ridestava; e indovinammo, dall'espressione amara del suo volto, che le rincresceva. Disse (e come le sbattevano le ciglia!): «Figurati, Guglielmo... ho sognato che io e Marlon Brando...». Mi dileguai, fremendo. E tu, Signore, aiutali.
Per interrogare Cinzia Brown, la cameriera del Savoy che ebbe cura di Marilyn Monroe quando la diva girò con Laurence Olivier, feci una scappata a Londra. Cinzia ha venticinque anni, è alta, biondiccia, né brutta né bella. Disse: «Oh, Marilyn è straordinaria... quando la vidi pensai: ha ingoiato un riflettore. Ma anche a me gli uomini dicono sempre, non appena mi notano, che sono fluorescente. Le sue gambe e le mie? Be', guardate, siamo lì. Idem per la bocca... i piedi li ho di mezzo numero più scarsi io. E allora? Una mattina, lei era uscita presto, mi chiusi nella sua camera. Aprii gli armadi, i cassetti, frugando e fiutando come una gatta. Che pellicce, che abiti, che finissima biancheria. Pensavo: Abbiamo la stessa taglia... un milionario che s'invaghisse di me, ed ecco... negli identici vestiti Marilyn e Cinzia sarebbero gemelle. Tutt'a un tratto scorsi, abbandonato su una poltrona, un velo di nailon. Era un suo reggipetto. Non so che furia mi invase. Lo afferrai e, dopo essermi lacerata la camicetta, per l'ansia che avevo, me lo provai. La sera, una sera di libera uscita, andai col mio Tony a Hyde-Park. C'era una mezza luna che spargeva miele a cucchiaini, tra foglia e foglia. Che hai? disse Tony; e io, cupa: Nulla, nulla. Camminammo, in silenzio, fino a una radura. Là Tony si commosse e tentò di abbracciarmi, sussurrando: Cinzia, fermati in questa luce... come sei bella, Cinzia. Fu un istante. Gridai: `Bugiardo! Oh sudicio bugiardo!', gli detti un ceffone che quasi lo atterrò e fuggii piangendo».
Non si finirebbe mai di interrogare la gente su Marilyn Monroe. A Parigi, un condannato alla ghigliottina mi disse: «È iniquo costringere un uomo, nell'attesa che la mannaia precipiti, a guardare il fondo nudo e sterile di un paniere. Il boia non potrebbe mettervi, che so, un'ampia fotografia di Marilyn Monroe in bikini?».
Follie della censura
Illustre on. Scalfaro, mi auguro che sia l'ingegnosa calunnia di un suo avversario o di un suo fratello politico, ma ho letto che Lei non assiste mai alla proiezione di un film o alla recita di una commedia. Si lasci dire, Onorevole, che un ammiraglio, indipendentemente dalle sue idee sull'acqua, deve saper nuotare. E che diamine. Superi, La prego, di tanto in tanto, la Sua nativa e specifica ripugnanza: dia un'occhiata ai film che la Sua Commissione di Censura approva o boccia. La Monroe di Follie dell'anno, per esempio. Lei effettivamente ignora Marilyn? Permetta che, in dieci righe, io Gliela riferisca. Paragonata alla Monroe, Gina Lollobrigida è un fiore di siepe, una violetta di quietissima carne. Salomone pensava a Marilyn e non a Gina quando scrisse: «Bella e terribile come un campo a bandiere spiegate». Rifletta, on. Scalfaro. Quando è «terribile», una bellezza? Quando è organizzata, perfezionata, articolata, esattamente come un esercito. E caso, appunto, di Marilyn Monroe. Essa è una Venere nata dalle spume di un mare di dollari. È la femmina lavorata, sofisticata, espressa scientificamente da una civiltà le cui risorse e malizie non hanno più argini. Si conceda, on. Scalfaro, una visione di Follie dell'anno. C'è una Marilyn che balla verticalmente fra i tavoli di un ritrovo notturno, e c'è una Marilyn che balla orizzontalmente (dico balla e intendo balla, perché la scena fa parte di uno sketch danzato) sul velluto di un divano rosso. On. Scalfaro, io avevo la gola chiusa a cento chiavi. Un andirivieni fra le mense e un premere le vertebre di un canape, aderendovi come Leda al cigno: nient'altro, ma l'attrice risolveva in ogni gesto un ambiguo teorema di sopraffazione, di iniquità sessuale. On. Scalfaro: io, cinquantenne ormai, ansavo e garrivo come una vecchia stufa; che succedeva intanto agli spettatori giovani? Li avrà guariti o no, fuori, il vento d'aprile? Ritiene Lei che Le avventure di Casanova minacciasse quella salute pubblica oggi protetta, secondo i medesimi giudici, da Follie dell'anno e dal varietà passato o non passato nella pellicola?
On. Scalfaro, è necessario che Lei si rechi, presto o tardi, al «Barberini» o al «Quattro Fontane». Su un piatto di bilancia la Legge Merlin e sull'altro Marilyn e il divano rosso o i bikini di Tutte donne, meno io. All'anima dell'equità e del buonsenso. Mia madre, quando i fulmini spaccavano il cielo, mormorava: «Gesù è nato, Gesù è morto, Gesù è risorto, Gesù salvateci». Onorevole, non ho più spazio. La saluto rispettosamente, buongiorno a Lei.
La roulette delle forme
Un film interpretato da Marilyn Monroe è fatalmente un campionario dei vezzi di Marilyn Monroe. Scusate, e noi? Ogni inquadratura ci getta, ci immerge nello stato d'animo del collezionista davanti al pezzo raro, introvabile, che mai figurerà nella sua lenta, grama, faticata raccolta. Gesù, che donna. Ve ne fa fare, di ragionamenti, in un minuto. Possibile che la Natura, con un vago complotto di ghiandole e di umori, in qualche anno di cosiddetta pubertà, abbia compiuto un lavoretto simile? Puntano tutte gli stessi gettoni, le femminucce, alla «roulette» delle forme da assumere nell'età felice: ma chi se li vede crudelmente rastrellare, chi a mala pena raddoppia la posta, chi arraffa una sestina e chi (la Monroe, per esempio) imbrocca il pieno, i cavalli e i quadrati. Anime del Purgatorio, che vincita al giuoco dei giuochi realizzò crescendo Marilyn. È diafana e compatta, è di garza e di marmo. È breve e interminabile, ora vi sembra di tenerla fra il pollice e l'indice, come una farfalla, ora intraprendete su di lei, magari sulla sua nuca o su un suo avambraccio, niente di più, i viaggi di Caboto. A Napoli, inteneriti e spaventati da un'eccezionale bellezza, diciamo: «Ti possano uccidere». Come non augurare a Marilyn, abbiate pazienza, un trono e un rogo? A sua volta ella ci esalta e ci deprime, ci castiga e ci premia. È un albero della conoscenza al quale appoggiamo invano la nostra malferma scaletta. È l'Eva promessa che in ogni donna ci è mancata. Ogni lieta stagione del nostro sangue ce l'annunziò, ma i fatti puntualmente ce la sottrassero. Marilyn, e che diavolo. Se io dico: «Ti possano uccidere», è perché non esiste, in coscienza, un più virile ed umano saluto per te. Mi hai promosso e bocciato, nel film di Billy Wilder Quando la moglie è in vacanza: fui, contemplandoti per un'ora e mezza, insignito e privato di te. Un vero uomo ti osserva, ti valuta e poi guarda stizzito la propria donna, pensando: «È inutile, sono la vittima di un clamoroso bidone».
Viva Marilyn
Non posso andarmene a vedere L'ultimo amante o Il grido del sangue, mentre Marilyn Monroe sposa il collega Arthur Miller. No, no, che diamine. C'entro come spettatore, c'entro come giudice di film, c'entro come scrittore e c'entro come uomo. La mia più calda e urgente opinione è che le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese. Questo matrimonio favoloso è un diploma, una medaglia, un titolo d'onore per chiunque viva di penna. Badate, scherzo e non scherzo. Prima delle annunziate nozze letterarie di Marilyn, le Veneri dello schermo appartenevano, legalmente o no, di riffe o di raffe, all'alta finanza o all'aristocrazia. Veniva un principe o un banchiere, un rajah o un produttore (gente che non di rado ha un cece dove noi abbiamo i sentimenti più teneri e più difficili) e se le annetteva. Qualche volta era un compagno di lavoro ad aggiudicarsele (mamma mia bella, gli intelletti e la finezza di certi famosi attori!) o un suburbano, lucido Rubirosa, nutrito dai genitori e dagli amici in attesa di una moglie che sfacchinasse per lui. Diciamolo, coraggio: non soltanto con i loro torbidi e vacui film, pieni di maiuscoli globi nelle camicette e altrove, parecchie Veneri cinematografiche dimostravano la loro indigenza mentale; anche i loro gusti (o le loro pazienze) in fatto di vincoli amorosi, erano un grigio sintomo di invalidità spirituale. È una dura lezione, perciò, quella che oggi impartisce Marilyn alle sue tonde emule dei vari paesi; e lasciatemi dire viva Marilyn, viva.
La donnissima impalmata dall'autore di Morte di un commesso viaggiatore non ha stentato a capire, in qualche anno di cinema, che la bellezza non è un punto di arrivo, per una attrice, bensì un punto di partenza. L'ineguagliabile mammina di Cupido ci stanca e si stanca. Ogni piacere dei sensi è fuggevole, precario; i film ideati unicamente per i vezzi dell'interprete, ci consumano e la consumano. Gli ipercritici già sentenziano che la Monroe ha l'epidermide oleosa, un presagio di bargigli e, sul collo, tutta una vigilia di rughe. Perché no? Ma le ingiurie del tempo al suo fascino arriveranno, immagino, troppo tardi. Lei sa, ora, come fronteggiarle e vincerle. Ha molto camminato e molto appreso, la belva dei canapé. Fu una bambina sfortunata, a me parlatemi di ambasce infantili e mi avrete in pugno, sarò vostro. Ah, ah, si muove ancheggiando, ma non lo fa per seviziarci, lo fa perché ebbe, da piccola, non so che guaio alle caviglie. Poi, aveva otto anni, ciabattò in un orfanotrofio. Dodicenne, fu servetta qua e là. Marilyn, lo straccio; Marilyn, le pantofole al signore. I munifici doni che successivamente le fece la pubertà, li conosciamo, li ha divulgati il cinema, per essi il mondo sospira come una zampogna forata. E del suo cervello, che succedeva frattanto? Il marinaio Dougherty, che la inaugurò coniugalmente (lo possano uccidere, come diciamo a Napoli), sostiene che Marilyn era sciocca, non la divertivano le sue barzellette. Figuratevi, l'umorismo dei supplementi domenicali dei quotidiani d'America, assimilato da un rozzo navigante; che spasso. E Joe Di Maggio? Non crede all'ingegno di Marilyn, dice che la sua ex-moglie non capiva gli intrecci dei libri gialli. Un dramma, per questo nerboruto giocatore di base-ball; egli fu magari privato dell'unico argomento che, fra le pareti domestiche, poteva gettare come la scimitarra di Brenno sulla bilancia della conversazione. Il Di Maggio non resistette che due o tre mesi a una vita senza il conforto di Spillane; Marilyn, disincagliatasi da Joe, cominciò a riflettere, intuì di quante donne si compone, anzi deve comporsi una vera donna.
«Mi lavo?», si disse. «Mi affido per lunghe ore ai sarti e ai parrucchieri? Mi trucco e mi profumo? Ho gioielli, pellicce, il meglio del meglio, per accentuare l'avvenenza mia? E allora è necessario ch'io faccia qualcosa per la Marilyn che non si vede alla prima occhiata, per la Marilyn avvolta nella mia rara e sofisticata bellezza. Dunque, mi piglio una “maestra di pensiero” e frequento i corsi di recitazione dell'Actor's Studio a New York, diretti da Elia Kazan». Vi piace? Questo ideò e questo fece, la belva dei canapé. Ignoro ciò che effettivamente sia, laggiù, una «maestra di pensiero». Che, alla lettera, insegni a pensare? Quanto bisogno ne avrebbero, in tal caso, molti produttori e artisti e registi indigeni di mia conoscenza. Ma fermiamoci a Marilyn. Imparava, e come, la biondona. Fu vista nella Biblioteca di Los Angeles, ai concerti e nelle esposizioni di quadri. Comprò, invece di una collana di perle, i volumi di teatro raccolti da Reinhardt. Scoprì Tolstoj e gridò che era meraviglioso. (Però anche il redivivo Tolstoj, potendo scoprire lei, emetterebbe lo stesso urlo). Sostituì a Vogue e a Photoplay, sul comodino, le opere di Aristofane. Giurò che la faccia di Einstein era più invitante della faccia di Marlon Brando, le assegnò una cornicetta d'argento e una mensola. Tanto brigò che ottenne una regia di Olivier. Infine, si invaghì di Arthur Miller.
Non ditemi che si tratta, nuzialmente, di un quarantenne come un altro. Eh no. Ammetterete che l'esercizio sviluppa gli organi. La forza di un pugile non è quella di un comune uomo della sua taglia; idem la sensibilità di un romanziere o di un commediografo o di un poeta, il quale ha man mano conseguito una eccezionale capacità di soffrire e di godere le cose. Egli anima perfino gli oggetti, dà un volto alle astrazioni e concretizza i sogni. Egli agghinda e trasfigura il mondo, no? Ebbene, il metro della bellezza femminile non è assoluto, non ha proporzioni fisse, ma varia enormemente. L'elettricità si calcola in volts, la bellezza femminile in sentimento della bellezza femminile. Che diavolo sapremmo della grazia di Laura, se in centinaia di squisiti madrigali Petrarca non ce ne avesse lasciato le impareggiabili misure? Dico a voi, nubili e maritate, dico a voi. Amore senza Psiche è un sudicio bruto, dal quale non apprenderete mai se e quanto siete belle. Marilyn sa oggi che uno stradivario grattato da un bracciante non è che l'ombra di un'ombra di violino. Perciò essa affina la sua intelligenza e perciò sarà moglie di un letterato. Hanno voglia, i giornali, a pubblicare che Marilyn ricevette i cronisti indossando «pantaloni alla toreador molto aderenti» (che dovrebbero fare i calzoni addosso a lei? Aderiscono, è ovvio, con tutta l'anima) e che alla domanda: «Avrete bambini?», ella ha risposto: «È probabile». Gesù, me la figuro, una donna ormai avvezza ai classici, in quel cerchio di melensi galoppini della stampa gialla di New York. Marilyn, perché non li hai presi a calci? Non avremmo avuto più dubbi sulla tua metamorfosi, la gioia ci avrebbe paralizzati.
Perché Miller doveva sposare Marilyn
Scusate, debbo tornare sulle nozze di Arthur Miller con la belva dei canapé. Un recente elzeviro di Guglielmo Peirce mi obbliga a farlo. Ci guadagnate, d'altronde, se non vi parlo di film come L'agguato delle cento frecce e La vedova e Occhio di Lince. Dunque Peirce ha letto, nel numero 28 dell'Europeo, la nota che intitolai «Marilyn sposa Arthur per sapere quanto è bella», e l'ha bocciata; non sono d'accordo e debbo dire la mia, scrive. Perché no? Ci mancherebbe che avessimo tutti l'identica opinione dei matrimoni o dei conoscenti nostri. Ma don Guglielmo comincia dando per certo che io abbia gridato «Ti ringrazio, Marilyn; anzi gli scrittori italiani ti ringraziano». Egli altera, com'è purtroppo nostra abitudine in ogni discorso, gli argomenti dell'interlocutore; se li aggiusta in modo che gli riesca più facile abbatterli. Don Guglielmo, ciò (come si dice a Napoli) non è da voi. In verità io fui generico, dissi: «Viva Marilyn per la dura lezione che impartisce a certe sue rivali» e dissi: «Le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese». Era (e alquanto scherzoso) il parere mio, nel quale non ebbi intenzione di coinvolgere gli scrittori italiani. Posso augurare a me, si è ciechi sul proprio conto, una Marilyn Monroe; in braccio al collega Tizio o Caio (meglio non far nomi) la troverei spaesata.
A me non duole essere contraddetto; ma non è agevole intendersi con Peirce. Egli mi boccia e poi dichiara: «Ha fatto molto bene Marilyn a sposare uno scrittore. Gli artisti debbono avere i più bei frutti della pianta donna. Ma ha fatto male, molto male Arthur a sposare Marilyn. Doveva rimanere con la moglie e i figli nella sua villa, a scrivere.
L'imperativo categorico di uno scrittore è quello di scrivere, non quello di fare il marito di belle, giovani, dinamiche attrici. I mariti delle belle, giovani e dinamiche attrici debbono essere anche loro giovani, belli e dinamici. Sola così le coppie si possono pareggiare sullo stesso terreno». Mamma mia. Come diavolo fanno tanti controsensi a vivere in un piattino, in un cucchiaio di spazio? Ad Arthur Miller spettavano i più bei frutti della pianta donna, ma senza che egli negligesse un attimo la famiglia e la casa. Ne deduciamo che ogni mattina, verso le dieci, Mrs. Miller e i ragazzi avrebbero dovuto porgergli, in un vassoio, la Monroe o la Hayworth o la Gardner quotidiana. «Arthur, è per te». «Guarda che meraviglia, babbo»; e così via.
Quanto al «pareggio delle coppie sullo stesso terreno», guai a chi lo tenta. Vogliamo, caro Peirce, una di queste notti, pregare il demone zoppo di Lesage che ci faccia dare un'occhiata nelle abitazioni dello scemo che ha sposato una scema, o del romanziere coniugato a una romanziera, o del bottegaio marito di una bottegaia? Vogliamo, in tal modo, avere un'idea sufficientemente aggiornata dell'inferno? Andiamo, non c'è risultato più infelice, più tetro della parità, del gemellaggio sul piano degli incontri sessuali. I giovani con le giovani e i dinamici con le dinamiche e i belli con le belle si addicono all'amicizia o a una fuggevole passione; l'arduo, lungo matrimonio esige invece corpi e anime diversi, antitetici, una luna per una terra e una terra per una luna. Caro Peirce, è agosto, cielo e mare e sassi e zolle bruciano, venite con me, troviamoci una carità d'ombra che ci ristori come a Natale il caminetto dei nonni, avviciniamo piedi e mani a irreali, magici alari di ghiaccio, vi racconto la fiaba dell'amore coniugale, anzi dell'amore in genere. E cioè: beato chi sa essere dal principio alla fine il contrario dell'individuo che ha scelto e che lo ha scelto. Beato chi gli rimane, in parte, almeno, incomprensibile e ignoto e imposseduto. Un efficiente matrimonio vive degli assidui, fervidi tentativi di un uomo e di una donna per incontrarsi, mondi lontani e astrusi l'uno per l'altro, a mezza strada. Non ci riescono mai del tutto, e questo puntuale insuccesso, anche se apparentemente li cruccia o li irrita, è la calce dell'unione loro. Il tempo incalza, precipita, ma ciascuno di essi, fino all'ultimo, è un protagonista, un eroe del soave dramma che ha voluto. Il matrimonio dei simili, caro Peirce, è invece un matrimonio di comparse. Dura e si consuma nel tedio e nel rancore, quando provvidenzialmente non lo interrompe l'arsenico o il revolver. «Infame, restituiscimi la curiosità del maschio per la femmina» (o viceversa), mormora il coniuge-fratello (o sorella), premendo il grilletto o versando la polverina.
Don Guglielmo, inoltre, dice: «Nelle fotografie, Miller sembra una specie di ripetitore, di impiegato dell'attrice. Ha mille ingrate incombenze che non hanno niente a che vedere con la poesia. Io non credo che accompagnando la moglie qua e là Miller possa scrivere capolavori. Non è vero, Tennessee Williams? Mi dia almeno ragione lei. Miller non doveva sposare Marilyn. Marotta ha ringraziato Marilyn (che, tra l'altro, non è neanche bella; sono molto più belle Sofia Loren e la Pampanini) a nome di tutti gli scrittori italiani. Senza permettermi tanto, dico: Arthur, hai fatto una solenne sciocchezza. La poesia non nasce facilmente correndo dietro a una bella e giovane moglie, magari con le sue valigie in mano, forse piene di abiti e profumi della sposa. La valigia dovrebbe essere la tua, e piena di libri. Ma ormai la sciocchezza l'hai fatta, e che Dio ti assista».
Obietto ciò che segue. Chiunque, pure Shakespeare o Dante redivivo, sembrerebbe, accanto a Marilyn in una fotografia, lo zio Nessuno. Le mille «ingrate incombenze», Arthur probabilmente non le ha ma se le piglia, è gentile, è innamorato, è in viaggio di nozze. La poesia come fatto concreto, di lavoro, per il momento egli l'accantona, mi domando chi si regolerebbe diversamente nei panni suoi. Nemmeno io ritengo che Miller, seguendo Marilyn a Londra o a Cuba o a Zanzibar, possa creare simultaneamente opere geniali; ma egli, a un certo punto, smetterà di seguirla. Oppure s'invertiranno le parti, lei andrà con lui e con una risma di fogli in una capanna nell'Ohio. Intanto Miller gode le sue nozze. È uno scossone, l'urto degli urti, il sommovimento dei sommovimenti psichici e fisici… don Guglielmo, ne converrete. L'effetto di esso non può, sul commediografo e sul narratore, essere immediato. L'arte non è cronaca, non è immersione. È invece un lento, vago riaffiorare di sentimenti, di conoscenza: e memoria. Si vedrà se Marilyn ha nociuto o ha giovato all'arte di Miller. Che altro? Il giudizio di Tennessee Williams, favorevole o no a Peirce, mi lascia freddo. Poco si sa della vita amorosa dell'autore della Rosa tatuata. Per me, Arthur doveva sposare Marilyn e come. Essa è infinitamente più bella delle tre o quattro massime Veneri cinematografiche. Non ha solo un volto e una figura graziosi, ha carattere e, giurerei, ha ingegno, stile. Dunque, auguri, Miller.
Fermata d'autobus - 1
Benché sia tardi (l'avrete già visto da parecchi giorni, Fermata d'autobus) lasciatemi dire «bentornata», con un filo di voce, a Marilyn Monroe. La voce ridotta a una specie di lanugine sonora è l'inevitabile conseguenza delle emozioni che la efferata bellezza di Marilyn suscita in ogni presumibile uomo; altro che «Rock and roll», signori miei, in Fermata d'autobus la belva dei canapé (tengo un poco a questa mia definizione, la ripeto volentieri, mi auguro che l'adottiate) cambia d'abito sotto i nostri occhi due o tre volte, pur non avendo quasi mai un effettivo cencio addosso; e il momento in cui, nella taverna, il facinoroso cow-boy le svelle, per trattenerla, il grosso nodo posteriore dell'abito di gala, rimane come un tatuaggio nel cereo subcosciente nostro, dove lo ritroveremo. Quanto al regista Joshua Logan, che mano sapiente e leggera, che ponte di nuvole fra Marilyn e noi. La sua macchina da presa accarezza la signora Miller come Orfeo la lira, egli trascrive con l'eleganza e il fervore di un amanuense trecentesco ogni linea, segreta o palese, dinamica o statica, malvagia o innocente, di una Monroe fisicamente gloriosa, ancora intatta fra le unghie del tempo. Grazie, don Joshua; noi qui a Napoli vi diciamo: possiate abbondare come abbonda il mare. Non sono volgari, no, i vostri accesi madrigali cinematografici ai vezzi di Marilyn. Anzi di molti brani di Fermata d'autobus potremmo dire: «Chiare, fresche e dolci inquadrature, dove le belle membra pose colei… « eccetera; alla vostra maniera voi petrarcheggiate, Logan, ci restituite dal primo all'ultimo, anime e corpi, alla nostra indimenticabile quinta ginnasiale.
Fermata d'autobus - 2
Novità delle novità: Marilyn è un'attrice che oggi umilia tutte le sue floride (e soltanto floride) emule di ieri. Mi ha fatto pensare, qua e là, addirittura a Judy Holliday. Pieno della sua faccia, lo schermo panoramico non si limita a offrirci denti perlacei, gote d'avorio, lutto di ciglia e seta di capelli. No, no, Marilyn recita, adesso, Marilyn accoglie personaggi, li nutre, li cresce, li affina. Osservatela con attenzione quando, nella scena finale, Bo le cede (nevica) la sua giacca imbottita. Come la infila, con che voluttà e carnalità di femmina vi si alloga, vi abita, vi si fonde come la ninfa con l'albero: è gia un accoppiamento, un atto nuziale (buon pro le faccia), un imeneo. Congratulazioni, signora Miller, e vedremo ciò che avrà ottenuto da voi sir Olivier.
Il principe e la ballerina - 1
Fresca di nozze con Miller, tutta un maggio coniugale, Marilyn andò a Londra per girare con Laurence Olivier Il principe e la ballerina, attinto alla commedia The sleeping prince di Terence Rattigan. Che fonte. Personaggi di maniera, operettistici, usciti dal museo dei personaggi, alla ricerca dell'estinto Lubitsch. Il quale non si è reincarnato, purtroppo, nemmeno in sir Olivier. Quando ci accorgeremo che divertire con finezza, con eleganza, è più difficile che intenerire o commuovere o sgomentare? I sorrisi che il film Il principe e la ballerina ci chiede e gli diamo, sono rari e tenui, di riguardo. E se non li questuasse la inaudita avvenenza di una Monroe nuova (la bellezza contenta, appagata, in certe donne splende come il genio) glieli negheremmo, forse.
Il principe e la ballerina - 2
Il granduca se ne va mormorando: «Ti amo. Tornerò» e l'ennesima Cenerentola svanisce nelle nebbie dell'incompiuto cinematografico.
Subito la dimenticheremmo, se non riempisse gli abiti di Marilyn Monroe.
Abiti? E chiamateli bucce. Aderiscono a lei, dal principio alla fine, come una seconda epidermide. Velluto su velluto, ambra su ambra, giglio su giglio. Una delle poche volte nelle quali ho sentito fremere, in qualunque rozzo spettatore ignorante di moda, l'animo di Christian Dior. I bollettini parrocchiali mi biasimeranno, come hanno già fatto; ma io non pecco, io lodo il Signore in una delle più fulgide creature sue. Mi precedette, in questo, l'ineguagliabile Cantico di Salomone. Il biblico e devotissimo Re aveva, decantando la Sullamita, il technicolor e il cinemascope in bocca. Maestà, contempla Marilyn che avanza o che arretra, e detta qualche impressione alla mia veloce stenografa. Un orizzonte di fuoco? Un Sinai di latte e di miele? Una valanga di rose? Il contenuto di un abbraccio vasto come la terra? Dillo tu, Salomone, con l'autorità, con l'immunità e con la saggezza tue. C'è da rabbrividire pensando al «gag» ripetuto del granduca quando (senza che le dita gli si moltiplichino o gli si infrangano) appunta la medaglia alla scollatura di Marilyn: tutto ciò che è fenomeno di equilibrio mi tornò in mente, il funambolo sul trapezio, le rondini sul filo telegrafico, eccetera. Aggiungiamoci che la tigre dei sofà ha imparato a inventarsi film per film; recita, adesso, e come.
Facciamo l'amore - 1
Le feste con Marilyn Monroe. Quanti spettatori di Facciamo l'amore, all'Alcione di Napoli, si erano stoicamente recisi, tagliati netti, dalle mense oberate di «pasta reale», di «susamielli» «, di torrone e di cassate? Ma non fu che un trasferirsi da scialo a scialo, da sovrabbondanza a sovrabbondanza, da un «ventre mio fatti capanna» a un «occhi miei, fatevi uncini» che dirlo non lo può chi non lo prova. Insomma. L'attuale Marilyn Monroe è, sul piano sessuale, ciò che un sontuoso banchetto di Trimalcione era sul piano gastronomico. Non che il tempo non abbia lambito la donnissima. Anzi. Essa è la banana matura quando ha raggiunto il massimo del profumo e del sapore, quando o la mangiate subito, godendo un'impareggiabile dolcezza che s'aprirà in voi come, appunto, il fogliame a stella di una palma, o fra qualche giorno sarà unguento. Abbiamo in lei, cioè, quella fase dei pranzi di Trimalcione in cui, sobbalzando all'apparire delle ennesime guantiere piene di squisiti e rari cibi, i convitati si alzavano per scivolare nell'attigua stanza, dalla quale rientravano un po' sbiaditi ma nuovamente digiuni.
Marilyn, permetti? Dice una arcaica e ingenua canzonetta del mio paese: «Come tua madre ti ha fatta / io lo so meglio di te». Senti, Marilyn, senti. Ogni sguardo che ti percorre è un viaggio d'istruzione. La vampata dei capelli biondi, nella quale svariano e guizzano come salamandre le inquiete luci del «set»; la faccia di raso, diafana, intorno al fiore equatoriale della bocca; innestato come un gambo il collo tuttora immune da rughe; soffici e larghe le spalle, idonee tanto alle carezze di un uomo col sonno fra le ciglia quanto agli scossoni di un uomo sopraffatto dall'ira; il petto di radice ampia, fermo, libero, non miracolato dai puntelli di un reggiseno; la vita che si restringe a precipizio, di modo che i fianchi sopravvengano con la veemenza di un'esplosione; il vasto bacino, levigato (suppongo) come i letti dei laghi, tutta una fluida bianchezza; e le gambe, infine (o in principio, se capovolgete l'elenco), di marmo, che se aderiscono l'una all'altra hanno la compattezza, l'unicità della parte inferiore delle sirene. Tutto questo in un dondolio, ripeto, di frutto estivo dal ramo: in una sorta di fatidico e perentorio «Coglimi, bello, e divorami… oggi, oggi o mai più». D'accordo? Abbiamo, non per molto, un quinto punto cardinale, il più calamitante e calamitoso, ed è Marilyn. Ogni donna affianca o sovrappone istintivamente la propria immagine a quella di Marilyn, e sospira. Ogni uomo osserva, calcola e freme: è un avente diritto, inspiegabilmente defraudato; aspettava, come tutti, Marilyn; ingannato e ingannando, per un abbaglio, sposò la deficitaria, labile Anna o Giulia che sposò. Mannaggia. C'era questo enorme feudo, per me: ed io, gonzo, mi accontentai del primo orticello che vidi. Sì, non è giusto che un uomo, sia quale sia (che diavolo hanno di speciale, individui come Joe Di Maggio e Arthur Miller?), invecchi e muoia senza aver ottenuto Marilyn. Ce la diano quale estrema unzione, ma ce la diano. Marilyn e il notaio; Marilyn e l'ossigeno; Marilyn e la tomba. Dobbiamo sapere, e non indovinare soltanto, perché siamo nati maschi. Rinunziammo, perdendo Marilyn, a un reame; fu un'abdicazione; invece del trono al quale ci destinava la nostra indubbia virilità, un umile impieguccio. Lo riconosci, Marilyn?
Ci compiangi, almeno? Tu fai, dell'uomo che accetti, l'unico professionista della gioia; gli altri non sono che manovalanza, bracciantato.
Facciamo l'amore - 2
E là c'è Amanda che, vestita di una calzamaglia nera e di un satanico pullover, danza. Anime del Purgatorio! Aggiungete, alla Marilyn che vi ho descritta, il movimento. Linee e volumi in ebollizione, in tempesta. Lucifero adoperò qualcosa di simile per le tentazioni di Sant'Antonio; l'audace colpo non gli riuscì perché Domineddio percepì i gemiti dell'asceta e accorse. Nulla di tutto ciò nel cinema Alcione di Napoli. Quando, a metà del «numero», l'infuocata Amanda si sfila il pullover e lo butta via (cade proprio sul muso di Jean Marc, si noti) le saracinesche del cielo restano immobili e neutre, come hanno fatto anche le forbici della Censura. Altro che getto delle mutandine in Rocco e i suoi fratelli: questa scena di Facciamo l'amore darebbe i sudori freddi a una mummia; qui il sesso è tutto, come in Venere sgusciata dal mare: nessun elemento narrativo, drammatico, ci distrae per un attimo da esso. Ma è contento Lei, onorevole Folchi?: e tutti, non dubiti, siamo contenti.
Dunque? Amanda avanza e si ritrae, si spezza e si ricompone, ondeggia e scocca, vibra, s'inarca e sgroppa; il suo gutturale, viscerale «da-da-dada»; è per Jean Marc la goccia che fa traboccare il vaso.
Facciamo l'amore - 3
Fra i pallidi o congestionati volti maschili era inutile scegliere, come riassunti di emozione si equivalevano; m'interessarono i piedini femminili così rigidi o instabili. «E anche questa Marilyn se n'è andata», mi dissi alzandomi. In Facciamo l'amore non esiste che lei; tutto il resto è polvere, detrito, muffa di commediola cinematografica. Lasciatemi sognare che Miller abbia ripudiato Marilyn dopo aver letto il copione di questo film. Yves Montand è un sufficiente (nulla di più) Jean Marc Clément. 1 due o tre baci di repertorio datigli dalla Monroe nelle riprese di Facciamo l'amore lo hanno, a quanto pare, falciato. Animo, Yves, il meglio e il peggio verranno. Il problema di Marilyn Monroe non ha che una salomonica, feroce soluzione: uccidiamola, imbalsamiamola e collochiamola in un Museo: dove, come l'acqua piovana o sorgiva, come la rossa luna fra i comi
gnoli, come gli alisei e i monsoni, appartenga a chiunque.
La Lollo
L'incolmabile differenza tra Gina e Marilyn è tutta qui: Marilyn riesce frequentemente ad essere prima buona o perversa, calma o furiosa, eccetera, e poi bella; Gina prima è bella e poi fa qualche debole, irrisorio tentativo di accennare un carattere, un sentimento. Ma chi la protegge, chi l'aiuta, chi la illumina questa fenomenale creatura? Sentiamo, chi ha mai cercato di sciogliere Gina da Gina?
Un grande letto
Marilyn Monroe è incinta: una dolce quarantena, Diana Dors e Ava Gardner e Abbe Lane accorrono a sostituirla nei platonici desideri di centinaia di milioni di ometti cinematografici bianchi, neri, gialli, rossi, meticci. La diva, in una intervista, ha detto: «Rinunzierei ad ogni privilegio, tranne che ad un grande letto»; ed anche Napoleone (immagino) avrebbe, eccitato dalla stessa domanda, risposto: «A me lasciatemi la piana di Austerlitz o di Marengo, e basta».
Chesterfield
Tu, Marilyn Monroe, che dove ti mostri là nasce una grotta ideale, sormontata da una stella di gioia. Marilyn, avevi l'intenzione di inviarmi una stecca di Chesterfield, ma campa cavallo, fu una promessa americana. E c'è chi ha fiducia nei regali di armi e di sicurezza di Eisenhower; o tutto è dipeso, Marilyn, dal fatto indubbio che non esistono Chesterfield smesse o inutilizzabili? Comunque, auguri: s'affini progressivamente la tua recitazione e s'arrestino di colpo, invece, la minore e la maggiore lancetta sul quadrante della tua bellezza; informaci sempre, da ogni inquadratura dei tuoi film, che la nostra condizione di maschi non è poi da buttar via.
Da L'Europeo, n. 718, 19 Luglio 1959
La via dell'arte
Ecco la ribellione di Marisa Allasio a Ponti e di Gina Lollobrigida a Rizzoli. Non aspettatevi che io difenda i produttori. Ma qui abbiamo una rivolta, un ammutinamento provocato, si afferma, da nobili motivi. Il cervello di Marisa Allasio e di Gina Lollobrigida, tumulato nei film La donna più bella del mondo e Susanna, tutta panna, ha dato eccezionali segni di vita. Queste veneri cinematografiche in sostanza dicono: «Basta. Vogliamo recitare». Sì, brave, felicitazioni, auguri, evviva: ma recitare con che? Una effettiva grande attrice è un paesaggio interiore, al quale poco aggiungono o levano i costumi da bagno e le camicette a voragine. La crisi vostra, gentilissime dive, ha un precedente clamoroso: quello di Marilyn Monroe. Avvedutasi che il cinema la inchiodava alla fatuità di una rara bellezza, Marilyn cosa fece? Non litigò con i produttori, non volle rescissioni di contratti o favolosi indennizzi. S'iscrisse umilmente a una scuola di recitazione. Sposò un geniale uomo di penna, ossia l'equivalente di centinaia di maestri in casa. Frequentò concerti, esposizioni di quadri, musei. Barattò il suo fulgido sorriso con le più varie nozioni; magari gli interlocutori fissavano, com'è naturale, i suoi morbidi fianchi, ma le parlavano di Van Gogh o di Cechov, del Beato Angelico o di Eliot. Mi spiego? Non è la via delle beghe, gentilissime dive, che porta al meglio del cinema e di ogni arte. Supponete che io avventatamente dichiari, qui: «La signora Lollobrigida e la signorina Allasio non meritavano che i film che hanno avuti». Subito voi mi querelate (è di moda), con ampia facoltà di prova; ed io ottengo ché i giudici mi autorizzino a rivolgervi alcune domande. Per esempio: «Come dobbiamo scrivere la parola ubiquo?», o: «Che significato ha il termine pedissequo? », o: «Volete coniugarci il passato remoto dei verbi cuocere e svellere? ». Ah dive, dive: io scherzo, ma come il pagliaccio di «Ridi, pagliaccio». Che sommossa di attrici è quella che esige, in una forma o nell'altra, un pozzo di lire? Qualunque arte, così avvilita, reagisce... Ah, care dive, l'arte non paga il sabato: ma un bel giorno, che è, che non è, puntualmente si vendica.
Ignorarsi
Avevo visto il giorno precedente La magnifica preda. Cielo e terra, esaltati dallo schermo gigante, indicavano la Monroe bisbigliando: «Non badate a noi... quella è Marilyn, fa impennare e fischiare gli eserciti... ora il vestito inzuppato dagli spruzzi delle `rapide' le s'incolla addosso; ora Mitchum la asciuga e la massaggia». Anche a Marilyn era impossibile ignorarsi.
Nuda
E della notizia che nel prossimo film della Monroe la diva apparirà nuda, che ve ne sembra? Finalmente saremo tutti, dal primo all'ultimo, trepidi e allibiti coniugi di Marilyn.
La sorella di tutte
Dio renda a Marilyn Monroe il bene che fa alle ragazze brutte nelle automobili allineate nei Drive-ins.
Idea per un giallo
La casa dei Miller è visitata dai ladri. Accorre la polizia. Risultano mancanti: un braccialetto di smeraldi, cinquantamila dollari in contanti, nove baci di Marilyn Monroe. Soltanto i gioielli erano assicurati.
Dieci domande a Arthur Miller
Domanda prima - Non siamo che umili spettatori cinematografici, colmi di illusioni acuite ed esasperate dai film. Vi dispiace se, mentre durano gli echi del vostro divorzio da Marilyn, vi guardiamo come avremmo guardato Colombo, Vasco De Gama e Magellano?
Domanda seconda - Avete dai film. Vi dispiace se, frettoloso appunto?
Domanda terza - A noi fotografie, fotografie, fotografie: e cioè soltanto le mappe di un favoloso continente. Ci fate l'elemosina di una descrizioncella dettagliata ?
Domanda quarta - È vero che Marilyn è «sessualmente distratta»? O foste voi, purtroppo, avaro con lei di promemoria?
Domanda quinta - Non sappiamo quel che farà l'America: ma possiamo informarvi che la Comunità Europea degli Scrittori ha deciso, all'unanimità, di prendere il lutto?
Domanda sesta - Per Marilyn e per voi fu coniata la frase «Il corpo e la mente». Ottenuto il divorzio, dovreste quindi pagare alla Monroe, vita natural durante, gli alimenti spirituali?
Domanda settima - Riporterete mai più un successo mondiale della portata di Marilyn?
Domanda ottava - Siete contento, insomma, di rientrare nell'ombra dei Premi Pulitzer e dei personaggi teatrali affidati qui in Italia, a Paolo Stoppa?
Domanda nona - Sembra che abbiate intenzione di risposare la vostra quieta moglie di un tempo. Avete un'idea del sospiro con cui, la prima sera delle riprese nozze, ella vi dirà: «Spegni la luce, caro?».
Domanda decima - Vi garba, tanto a voi quanto a Marilyn, per la vostra carta da lettere di coniugi divorziati, il motto: «Non si vive di solo pane»?
Da L'Europeo, n. 718, 19 Luglio 1959