Se c'è qualcosa verso cui il regista merita riconoscenza è il suo coraggio nel portare avanti le proprie idee, nel bene e nel male. Al cinema.
di Eugenio Radin, Vincitore del Premio Scrivere di Cinema
Se c'è qualcosa verso cui Darren Aronofsky merita sicuramente riconoscenza, questo qualcosa è la sua audacia, il suo coraggio nel portare avanti le proprie idee senza curarsi se queste vadano contro i gusti del grande pubblico o piuttosto contro gli stilemi del cinema indipendente. E se il riconoscimento di tale arditezza è venuto da sé nel momento in cui essa è stata il concime di un ben meritato successo, è invece necessario richiamarla con rispetto all'attenzione dello spettatore nel caso di opere minori o di fronte a flop più o meno gravi. Ma è forse ancora più importante (proprio per il fatto che il rischio è qui maggiore) guardarsi a sua volta dal commettere l'errore opposto, ovvero dal giudicare positivamente un'opera per il solo fatto che in essa si riscontri una certa capacità di osare.
Certo, l'originalità e la ricercatezza stilistica sono qualità importanti per un autore, ma come ricordava in ogni occasione il Gradgrind dickensiano, con tono cinico e freddo: ciò che conta alla fine "is nothing but facts!", sono solo i fatti.
Proprio per questi motivi, se non può essere negata una certa ambizione all'ultima opera del cineasta statunitense, questa ambizione non può e non deve, ipso facto, decretarne il successo.
Bisogna però, per un film come quello in questione, distinguere innanzitutto un discorso formale da uno contenutistico, poiché per entrambi i livelli è presente una differente tipologia di ambizione. Il discorso stilistico è quello in cui Aronofsky osa di più, tramite l'utilizzo di soluzioni particolari, di primi piani claustrofobici che tolgono il respiro e che non aprono mai su campi lunghi, nonché tramite una fotografia cupa che dona all'atmosfera una certa qual componente onirica. Alcune di queste soluzioni funzionano, molte invece no.