martedì 19 gennaio 2016 - Celebrities
Veniva da altrove ed era dappertutto David Bowie. Polimorfo e versatile, vampiro e camaleonte, ha disseminato una moltitudine di immagini di sé, che si trattasse dei personaggi interpretati nelle clip, di quelli 'posati' sulle cover, di apparizioni come attore o della sua presenza subliminale dentro film, a cui prestava canzoni e voce. Animale unico della sua specie, non assomiglia a nessuno e nessuno gli somiglia. Lo stile di Bowie non appartiene che a lui.
'Laboratorio' inesauribile di forme, concepisce da sé le silhouettes dei suoi numerosi avatar e delle sue tante vite. Per Bowie palcoscenico e vita si confondono, l'esistenza non è per lui che un gioco di ruoli e il costume il modo migliore di prendere posto nella narrazione che ciascuno di noi fa di se stesso. La sua l'ha consegnata al mondo e di questo saremo sempre riconoscenti. Bowie non è un prodotto della moda o dell'immaginazione di uno stilista, Bowie si è creato da solo e ha cucito da solo ogni mise. Non è la moda a ispirarlo ma è lui che la ispira, galvanizzando Frida Giannini (Gucci) che consacra tre collezioni allo stile Bowie, Hedi Slimane (Dior Homme) che applica la sua eleganza androgina all'abito maschile, Raf Simons (ancora Dior) che omaggia i suoi personaggi nella collezione haute couture primavera-estate 2015.
Eccolo il messia che tutti aspettavano, metà alieno, metà umano, rientra dal cosmo con un messaggio d'amore, si accomoda in salotto e canta a te, proprio a te, che sei finalmente libero di essere chi vuoi essere.
Impregnato di musica americana (Elvis Presley, Little Richard, The Velvet Underground), aperto alle influenze europee (Jacques Brel, Kurt Weill), affascinato da mimi e scrittori Beat, avvinto da Oscar Wilde e George Orwell, l'artista inglese si nutre degli altri, traducendo le avanguardie in linguaggio popolare. Cacciatore instancabile di idee, si tuffa a picco nell'ignoto, "inferno o cielo non importa", per trovare la sua via, l'inedito e le immagini multiple di sé.
Alla crisi identitaria, Bowie oppone l'idea di reboot, un'identità da rilanciare incessantemente, trasformandola e modellandola a proprio piacimento. Una performance perpetua portatrice di libertà e di possibilità. Per i suoi concept album inventa allora personaggi che abbiglia e poi incarna sulla scena, talora, a suo discapito, nella vita (Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Halloween Jack, Nathan Adler, The Thin White Duke...). Bowie costruisce un'armatura, moltiplica i suoi alter ego, oggettivizza i suoi demoni, li domina e li condivide col pubblico, per renderli più sopportabili, per esistere sotto lo sguardo febbrile dei fan. Perché l'uomo che viene dal pianeta Marte qualche volta non sa dove andare, qualche altra non va da nessuna parte, vagando station to station. In equilibrio permanente tra realtà e (science) fiction, fa delle sue vertigini personali (paranoia, angoscia, mancanza di desiderio) un'emozione universale.
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Mixage intelligente di numerose influenze culturali, lo stile di Bowie pesca ovunque e combina il camp e l'androginia, la mimica di Lindsay Kemp e la raffinatezza del gesto trattenuto del teatro No o del Kabuki, il lirismo di Brel e il grottesco di Weill, Warhol, i Velvet e Berlino, il glam rock e il glamour delle star dell'età d'oro hollywoodiana, i film espressionisti e l'estetica futurista di 2001: Odissea nello spazio (1968).
Catalizzatore e acceleratore insieme, capace di sintetizzare e tradurre in lingua fluida e comprensibile i concetti ardui di artisti e movimenti artistici, Bowie si fa evento puro, evento generato dalla mente iper-creativa di David Robert Jones (il suo nome all'anagrafe). Ma perché la magia si compia, a Bowie serve un pubblico e un'epifania che si annuncia in diretta una sera d'estate del 1972. I più fortunati, e i più vecchi, la vivono su un divano di pelle e davanti al loro televisore, i più giovani la recuperano su YouTube, ma il risultato non cambia e mette tutti d'accordo. Ospite a "Top of the Pops", un programma musicale trasmesso sulla BBC dal 1964, David Bowie canta "Starman". L'Inghilterra è sbalordita. Capelli rossi, pallore lunare, abitato da una bellezza cosmica, buca lo schermo, spinge sul cuore, si aggrappa alla memoria e lì resta per sempre. Nel pop inglese esiste un prima e un dopo "Starman" a "Top of the Pops". Momento iconico, rivoluzionario e rivelatore, ospitato in una trasmissione che si guarda in famiglia, la prestazione di Bowie sigla per gli adolescenti di allora la separazione dal mondo genitoriale, indignato, sbigottito, sorpassato. È il debutto della televisione a colori e la tuta policroma di Bowie congeda per sempre bianco e nero e passato. Eccolo il messia che tutti aspettavano, metà alieno, metà umano, rientra dal cosmo con un messaggio d'amore, si accomoda in salotto e canta a te, proprio a te, che sei finalmente libero di essere chi vuoi essere.
Figura transgender, performer nato, iconofilo convinto, ex studente di arti grafiche, Bowie ha tutto per piacere (anche) agli artisti. 'Materia plastica' per schizzi, scatti, collage e sculture, l'artista inglese ispira il mondo e gli regala una discografia e una storia pop(rock) che va ricollocata dentro un contesto extra-musicale. Perché Bowie ha tracciato singolari percorsi tra le arti praticate con trasporto fino a prolungare al cinema il gesto di Warhol (Basquiat, 1996) e a concepirsi come concept pop. Spugna vivente, assorbe tutto, ricicla, duplica, reinventa e si reinventa meravigliosamente. Il suo appetito di trasformista interstellare convince Nicolas Roeg, appassionato dell'universo rock che aveva già assoldato Mick Jagger (Sadismo), ad affidargli nel 1976 il suo primo ruolo cinematografico (L'uomo che cadde sulla terra). D'altra parte, la potenza delle immagini prodotte da Bowie attraverso cover, concerti e clip non poteva lasciare a lungo insensibile il cinema. Così, il cantante che 'intonava' i suoi testi agli autori preferiti (Stanley Kubrick, Fritz Lang), debutta sul grande schermo. Alieno caduto sulla terra, David Bowie non ha bisogno di incarnare, gli basta infilare un paio di occhiali neri e il prodigio è compiuto. Perché Bowie è un performer, il più grande di tutti e senza il quale tutti non esisterebbero.
Prigioniero inglese (Furyo, 1983) o vampiro crepuscolare (Miriam si sveglia a mezzanotte, 1983), una carriera sembra aprirsi al cinema per l'artista ma le cose vanno altrimenti. Bowie si accontenta di apparizioni ricreative, più o meno lucrative, più o meno prestigiose. Alcune brevi ma rimarchevoli come Ponzio Pilato ne L'ultima tentazione di Cristo (1988) di Scorsese o l'uomo scomparso e riapparso in un video di sorveglianza ne I segreti di Twin Peaks (1990) di Lynch o ancora Nikola Tesla nel prestigio di Nolan, che alimenta la sua mitologia affidandogli il ruolo di uno scienziato inventore di una macchina per fabbricare cloni umani perfetti.
Il percorso di Bowie nel cinema eccede comunque i film girati e regala altrettante emozioni come voce allacciata alle immagini. Miniera d'oro discografica, diventa motore d'ispirazione di sequenze indimenticabili. Su tutte la corsa folle e disarticolata di Denis Lavant (Rosso sangue, 1986) su "Modern Love" e lungo i marciapiedi di Parigi. Una straordinaria esplosione di lirismo pop che rende impossibile ormai ascoltare la canzone di Bowie senza associarla alle immagini eccitate di Leos Carax. Altri e numerosi i film che hanno adottato le sue canzoni, "Cat People" canta ne Il bacio della pantera (1982) e in Bastardi senza gloria (2009), "Space Oddity" in C.R.A.Z.Y. (2006) e ne I sogni segreti di Walter Mitty (2013), estorto un frammento ("The Hearts Filthy Lesson" in Seven, 1995, "I'm Deranged" in Strade perdute, 1996), adattato in un'altra lingua ("Rock 'n' roll suicide" in Le avventure acquatiche di Steve Zissou, 2004, "Ragazzo solo, Ragazza sola" in Io e te, 2012) o mai 'inteso' e soltanto evocato col loro creatore (Velvet Goldmine, 1998). Ma c'è un altro film insieme a quello di Todd Haynes dove non ascoltiamo una sola nota di Bowie ma lo avvertiamo continuamente. Toccante favola science-fiction-esistenzialista, Moon (2009) racconta la solitudine di un astronauta, unico abitante di una stazione lunare che come il Major Tom manda messaggi d'amore alla moglie e vorrebbe tanto ritornare a casa. Opera prima di Duncan Jones, figlio dell'artista, Moon tradisce la suggestione paterna: la fascinazione per la conquista spaziale che ha messo in orbita Ziggy e Tom e irrigato ogni disco.
Ossessionato dall'idea di fare della sua vita e della sua fine un'opera d'arte, l'oggetto di una costante messa in scena, Bowie pubblica l'otto gennaio "Blackstar" e recita il 'morto' per esorcizzare la (sua) morte. Morte che sopraggiunge una settimana dopo l'uscita del suo ventiseiesimo album. La clip "Lazarus" lo scopre allettato. Immagine testamentaria e versi riconciliati, corpo senile e spirito indomito, Bowie si ritira a ritroso dentro un armadio-tomba che richiude per sempre su di sé. Sull'uomo e sull'artista tante volte trapassato, liquidando a turno le proiezioni della sua furia trasformista. Perché Bowie fu Lazzaro prima di cantarlo, libero prima di liberarsi. Candido extraterrestre, dandy, queer, duca, pirata dello spazio o hero ai piedi del Muro ha concepito l'homo superior ("Oh, You Pretty Things") e un'ultima stella da guardare. E da ascoltare sulla Terra o altrove.