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Florence Korea Film Fest, l'intervista a Jeon Do-yeon

La diva trasformista che ama la semplicità.
di Emanuele Sacchi

In foto l'attrice Jeon Do-yeon.
Jeon Do-yeon (51 anni) 11 febbraio 1973, Seul (Corea del sud) - Acquario.

domenica 24 marzo 2013 - Incontri

Si presenta con grande stile e semplicità Jeon Do-yeon, come una diva che non ha bisogno di ostentare alcunché. A parlare è la sua carriera: quindici film in cui ha affrontato generi e personaggi diversi, sfaccettature sempre nuove di donne caratterialmente complesse in un contesto ancor più complicato. Miglior Attrice al Festival di Cannes per Secret Sunshine di Lee Chang-dong, tata sensuale e innocente in The Housemaid, amara dissertazione di Im Sang-soo sui mali della borghesia. Ma la galleria di personaggi incarnati da Jeon Do-yeon non si ferma qui e la retrospettiva sostanziosa dedicatale dal Korea Film Festival rappresenta l'occasione ideale per recuperare pagine meno note ma altrettanto imprescindibili (il caustico Happy End, il laconico My Dear Enemy) della diva. Oltre che per incontrarla e saperne di più sui retroscena e il rapporto con i registi illustri e meno noti con cui ha lavorato.

Fin dagli inizi la sua carriera è stata caratterizzata dal desiderio di cimentarsi con personaggi e ambiti sempre nuovi, da film come Happy End, My Dear Enemy, You Are My Sunshine alle pellicole più note. Che tipo di stimoli differenti le ha dato passare da un cinema che si potrebbe definire "indipendente", a basso budget, a produzioni più importanti come The Housemaid di Im Sang-soo?
Per me non conta molto la dimensione produttiva di un film, la fama di un regista o la sua età. L'aspetto che mi porta a scegliere di interpretare un certo ruolo è anzitutto la trama, lo script, che mi deve in qualche modo colpire.

The Housemaid richiedeva un doppio impegno: oltre ad avere una trama complessa e ricca di sfumature è infatti anche il remake - molto libero - di uno dei film più importanti della cinematografia sudcoreana. Che tipo di rapporto aveva con il film originale di Kim Ki-young (del 1960), e come ha affrontato l'idea di doversi cimentare nel remake di questo film e nello sconvolgimento apportato da Im Sang-soo al personaggio principale?
So che può sembrare strano, ma in realtà non ho mai visto il film originale di Kim Ki-young! Questo anche perché lo stesso Im Sang-soo mi ha sconsigliato di vederlo, per evitare di esserne condizionata. Lui voleva creare un nuovo The Housemaid, radicalmente diverso da quello originale, anche perché il contesto storico dei due film è profondamente differente.

Che tipo di preparazione ha richiesto l'interpretazione di un personaggio così profondo, stratificato, dilaniato da una crisi interiore e soprattutto con un rapporto con la religione cattolica così particolare, come quello di Secret Sunshine (che le è valso il Prix d'interprétation féminine al Festival di Cannes nel 2007)?
La protagonista non è cattolica, ma dovendo affrontare varie difficoltà nella sua vita ricerca la fede e visita la Chiesa. Uno degli aspetti più complessi del lavoro con Lee Chang-dong è stato il fatto che lui non mi abbia chiesto nulla in particolare; e forse questo è stato positivo, perché mi ha concesso più libertà di interpretazione, ma nello stesso tempo ha reso la mia preparazione più difficile del solito. Il Premio a Cannes per me non è stato un punto d'arrivo, ma più un inizio: devo ancora imparare molto e lavorare all'estero potrebbe essere una grande opportunità. Mi piacerebbe lavorare con molti registi europei; a una festa ho incontrato Pedro Almodóvar e lui sarebbe ad esempio un autore con cui amerei lavorare.

Quali differenze e problematiche ha riscontrato nel lavoro con Lee Chang-dong e Im Sang-soo, due autori tra loro molto dissimili?
Il lavoro con Im Sang-soo è stato particolarmente interessante per me perché lui non voleva un'azione prevedibile da parte dell'attrice, anzi, stimolava la creatività e la spontaneità dell'artista.

Nel nuovo The Housemaid il personaggio da lei interpretato rappresenta una sorta di rottura nei confronti della borghesia coreana e lo stesso Im Sang-soo con questo film si lancia in una critica sociale molto profonda. Lei come si pone di fronte a questa pellicola: condivide la posizione del regista e il ritratto crudele e sprezzante che viene fatto della ricca borghesia della Corea del Sud?
Non credo che Im Sang-soo volesse rispecchiare solo questo aspetto crudele e conflittuale della società. Penso piuttosto che il regista abbia voluto rappresentare una parte della realtà: il film mostra che nonostante la famiglia protagonista sia ricca, una cicatrice è destinata a segnarla per sempre. Nel finale la figlioletta ha assistito alla morte della domestica e il giorno seguente i suoi genitori le regalano un quadro costosissimo, sperando di poter compensare così il trauma subito; però sappiamo bene come questo sia impossibile.

Pur essendo un'attrice molto importante, che ha vinto una Palma d'oro a Cannes, capita spesso in Occidente, come nella conferenza stampa qui a Firenze, di essere paragonata a star americane, come se il modello del cinema sudcoreano andasse per forza ricondotto a quello hollywoodiano. Cosa pensa in merito? Non ne è infastidita?
Per me è solo una differenza di punto di vista, e dunque non lo vivo come un gran peso.

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