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La politica degli autori: Gianfranco Rosi

A Venezia 70 con Sacro GRA, uno dei rifondatori del documentario italiano.
di Mauro Gervasini

In foto Gianfranco Rosi.
Gianfranco Rosi 1964, Asmara (Eritrea). Regista del film Sacro GRA.

giovedì 5 settembre 2013 - Approfondimenti

Una delle cose più interessanti della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia ancora in corso è il dibattito sul documentario. In selezione ufficiale ce ne sono 21 disseminati in varie sezioni, due in concorso. Ma sulla terminologia non c'è accordo. O almeno, viene fuori vedendo i film e ascoltando gli autori che la definizione è spesso una formula di comodo. Costanza Quatriglio, regista di Con il fiato sospeso, presentato fuori concorso, racconta l'avvelenamento di alcuni giovani ricercatori dell'Istituto di Chimica e farmacia dell'Università di Catania, e affronta di petto la questione scegliendo attori professionisti come Alba Rohrwacher e Michele Riondino voce narrante per un'opera all'apparenza documentaristica. Gianfranco Rosi invece, in concorso con Sacro GRA, dal 25 settembre in sala, è ancora più radicale sul suo film e sulla classificazione. «La parola documentario mi fa paura», sostiene, ed è quasi il manifesto di un cinema che il simulacro del reale (a volte un fardello, un'ipoteca) lo esorcizza con una libertà espressiva potente, non solo mimetica.

Rosi, classe 1964 e nessuna parentela con Francesco, nazionalità italiana e statunitense, è poco noto al grande pubblico, nonostante alcuni suoi lavori siano stati distribuiti in dvd. Insieme a Pietro Marcello (Il passaggio della linea, 2007, La bocca del lupo, 2010) è il cineasta italiano che maggiormente sta rifondando il concetto di documentario. Estraneo al filone divulgativo, pare comunque troppo anarchico anche per quello cosiddetto "di creazione", spesso velleitario e più intento a sperimentare nella forma che non ad attingere alla realtà per ricavarne una narrazione. Rosi si immerge nel mondo che vuole raccontare. Sacro GRA segue il diverso peregrinare (movimento fisico letterale o divenire statico) di alcuni personaggi legati a vario titolo al Grande raccordo anulare di Roma (il GRA appunto): chi abita a ridosso come il nobile torinese decaduto con la figlia o il sedicente «membro ad honorem del Senato degli Stati Uniti» o chi ci lavora come le prostitute o il lettighiere. Per oltre due anni il regista è stato lì, insieme a loro, riprendendo ore e ore di materiale. Primo risultato la trasformazione di un non-luogo come qualunque tangenziale o spartitraffico ci immaginiamo sia, in denso microcosmo quale forse solo un'opera di fantasia (di uno scrittore definito di fantascienza, guarda caso) era in precedenza riuscita a fare ("L'isola di cemento", ma anche "Regno a venire", per certi versi: J.G. Ballard).

Il procedimento era noto sin dai tempi di Below Sea Level (2008) e El Sicario - Room 164 (2010) i precedenti lungometraggi del regista. Il primo racconta la comunità di homeless, sbandati, resistenti o renitenti, disperati e solitari che abita una enorme base militare dismessa nel deserto del Nuovo Messico, a 40 metri sotto il livello del mare (da qui il titolo). Luogo frequentato da Rosi per quattro anni (quasi 150 ore di girato). Storie. Di uomini e donne sullo sfondo del più americano degli spazi, quello del mito e del western che ha legato un paesaggio alla formazione identitaria di una nazione. Qui c'è solo estraneità, dissonanza tra questi uomini e queste donne defraudati e la staticità eterna dell'ambiente. Uno scarto che diremmo filosofico o esistenziale, prima ancora che estetico; certo a un livello dialettico superiore rispetto alla semplice connotazione del dato "realistico". Altrettanto straordinario El Sicario - Room 164, dialogo con il boia di un cartello messicano con tanto di cappuccio nero nella camera che fu teatro delle sue torture ai danni di nemici spacciatori o traditori. Il sicario del titolo ricostruisce le atroci memorie non solo attraverso le parole, pesanti come pietre, ma disegnando su ampi fogli schemi, numeri, sagome e complicati scarabocchi che rappresentano il suo orribile mondo e diventano, per Rosi, il film, o almeno una sua parte essenziale. Uno storyboard in fieri. E forse è proprio questa la cifra del suo cinema: il racconto di qualcosa nel momento in cui si trasforma da realtà a immaginario.

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