Holy Motors manifesto cinefilo.
di Roy Menarini
Non è un caso che Holy Motors di Léos Carax sia rapidamente diventato, in questi mesi, il manifesto della cosiddetta nuova cinefilia. Rispetto alla cinefilia classica, quella di oggi accetta consapevolmente il mutato mondo dei new media e accoglie l'idea che il cinema possa essere visto e amato in ogni tipo di contesto, dalla sala allo smartphone, dal cineclub al web, e che anzi la moltiplicazione dei luoghi di fruizione funzioni come una sorta di esperienza virale della passione per la settima arte. A tal punto disseminata e fagocitante, che Holy Motors ne esemplifica il senso.
I viaggi di Oscar sulla sua limousine - che avvicinano in una strana torsione visionaria questo film e quello di Cronenberg, Cosmopolis - non sono solo passeggiate nei boschi narrativi di un personaggi in cerca d'autore. Non si vede mai, infatti, alcuna macchina da presa, o telecamera, a riprendere le gesta del personaggio, e nulla è spiegato del perché e delle cause del suo comportamento quotidiano, né chi lo finanzi (o "produca") né altro. Lo spettatore viene scaraventato da una sequenza a un'altra senza appigli, senza prospettiva certe ed è dunque costretto, mentre guarda il film, a domandarsi che cosa stia accadendo e che funzione abbiano gli eventi cui assiste.
Dunque, si tratta di un'idea formidabile di cinema disseminato, come a dire che i media si stanno facendo impalpabili e onnipresenti, che l'immagine è ormai dappertutto. Di più: Carax sembra intuire che la nostra contemporaneità è costruita di racconti, di storie, e che persino nell'epoca dell'ipertecnologia, invece che subire una meccanizzazione del vissuto, non facciamo altro che trovare contesti narrativi nei quali inserire le nostre esperienze, i nostri consumi, i desideri e i casi della vita.
Non sempre Holy Motors porta fino in fondo questa prospettiva radicale, e specie nella sequenza con Kylie Minogue, pare smarrire il senso dell'operazione e tornare a parlarci di personaggi con la loro malinconia di figure della finzione - un po' come i giocattoli di Toy Story, consapevoli della loro natura subordinata. Ed è anche possibile che Carax abbia impostato nella sua testa un film molto più conservatore di quello che stiamo interpretando in queste righe, ovvero un canto nostalgico da vecchia cinefilia (la sequenza finale nel deposito delle auto lo suggerisce), eppure merita di essere l'opera cinematografica più chiacchierata e amata dalla nicchia cinefila internazionale, non fosse altro che per la sequenza del motion capture, dove avvertiamo - questa volta sì, davvero - lo struggimento del corpo nei confronti della sua impronta digitale, del suo doppio, dei suoi avatar nel cinema che viene dopo il cinema.