Advertisement
La politica degli autori: Clint Eastwood

Un regista capace di legare pubblico e privato in un unico racconto.
di Mauro Gervasini

In foto il regista americano Clint Eastwood.
Clint Eastwood (Clinton Eastwood Jr.) (94 anni) 31 maggio 1930, San Francisco (California - USA) - Gemelli.

mercoledì 28 dicembre 2011 - Approfondimenti

Se Clint Eastwood (31 maggio 1930) dovesse rivelarsi longevo come un altro maestro, Manoel de Oliveira, avremmo ancora una buona ventina d'anni di film di altissimo livello. Belle speranze. Ve lo immaginate il cinema americano senza Clint? Si ridurrebbe ai soli blockbuster di rapido consumo, alle impalpabili emozioni del cinemino finto-indie coccolato dal Sundance Festival e a qualche rara seppure limpida eccezione, tipo Michael Mann. Per il resto, il deserto dei tartari. Del paese che la settima arte ha glorificato per un secolo si fa sempre più fatica a scorgere un narratore classico, capace di trattare con i mercanti del tempio senza scendere a compromessi con un'idea rigorosa di cinema.

L'uscita di J. Edgar (nelle sale dal 4 gennaio) biopic dedicato al più celebre direttore dell'Fbi, interpretato da Leonardo DiCaprio, conferma la più recente tendenza dell'opera eastwoodiana. Negli anni '90 si era concentrato su una rilettura non banale, anzi intrisa di umanesimo, dei generi. Quelli che compongono il grande romanzo americano. Titoli fondamentali come Gli spietati (1992), Un mondo perfetto (1993), Mezzanotte nel giardino del bene e del male (1997) fino diciamo a Space Cowboys (2000), che coniuga i due filoni più affini (western e fantascienza). Nel nuovo millennio stiamo assistendo a un percorso diverso, se volete più "politico". Intendiamoci sui termini. Consideriamo politica la dimensione storica di molti personaggi da Eastwood raccontati di recente. Dal primo presidente nero del Sudafrica, Nelson Mandela (Invictus, 2009) ai soldati che issarono la bandiera sul monte Iwo Jima, immortalati dallo scatto dei reporter di Flags of Our Fathers (2006). Passando per Kowalski, il "borghese piccolo piccolo" del suo capolavoro (assoluto? forse sì) Gran Torino (2008). Un personaggio esemplare perché rappresenta l'individuo che nel racconto della Storia, in particolare americana, sta sullo sfondo, insieme a milioni di altri, ma che ne è stato artefice come le figure-simbolo. A differenza di generali e presidenti, a Kowalski di quella Storia è rimasta appiccicata soprattutto la tragedia: da una parte i rimorsi indelebili della guerra (di Corea), dall'altra il disorientamento, malamente affrontato con aggressività e misantropia, per le contraddizioni di una modernità che non comprende. Dismissioni industriali (la grande fabbrica dell'auto Usa, prima a crollare nello scenario di crisi), mutamenti sociali e urbani (la forte immigrazione, lo snaturamento dei sobborghi residenziali). Dopo l'11 settembre, Kowalski è il vero titano di una cultura che non ha saputo fare a meno della violenza come elemento "costituente". Del peccato originale americano lui si fa carico nella catarsi finale, come un cireneo (colui che porta la croce). Davvero un personaggio gigantesco.

E ora J. Edgar Hoover, per quasi mezzo secolo l'uomo più potente degli Stati Uniti, a capo di una rete di disinformazione e spionaggio interno il cui controllo sfuggiva anche alla Casa Bianca, dove sono passati, durante il suo mandato "a vita", ben otto presidenti. C'è una sostanziale differenza tra Invictus e J. Edgar. Il primo, nonostante una poderosa ricostruzione dello scenario storico, si concentra su un solo episodio della vita di Mandela: la vittoria della squadra sudafricana di rugby ai mondiali e la benefica ricaduta sulle sorti unificate di un paese uscito lacerato da anni di apartheid. Nel film con DiCaprio, invece, si racconta tutta o quasi la parabola di un personaggio estremamente controverso, ma di sicuro eccezionale, cercando di coglierne nel profondo debolezze e ambiguità, senza dare giudizi didascalici o sciogliere le ombre. Un ritratto che diventa un affresco, perché dietro Hoover ci sono oltre cinquant'anni di storia Usa della quale lui mosse le fila, non sempre alla luce del sole.

Dunque nell'ultimo decennio Clint Eastwood ha legato il pubblico e il privato in un unico racconto, cercando le radici del proprio paese e ragionando sul concetto stesso di democrazia, a volte con critica radicalità (non sfugga la forza di Changeling, 2008, altro titolo che pone una persona, Angelina Jolie, in contrasto con la rappresentazione che l'America dà di se stessa, troppo spesso virtuale). Lo ha fatto dalla sua prospettiva culturale, certamente individualista, memore di un percorso che nasce non a caso con il western, e forse, speriamo, proprio lì si concluderà, dato che il cineasta (tornato dopo anni a recitare in un film non suo, Trouble With the Curve) ha dichiarato che gli piacerebbe girarne ancora uno.

E Million Dollar Baby (2004), Hereafter (2010)? Sono titoli non estranei a questo percorso (specie il primo) ma soprattutto legati a un altro argomento caro all'ultimo Eastwood, quello della trascendenza, dello spirito, di Dio. Confronti con sacerdoti e addirittura con l'aldilà, di cui si tenta una visione. Si avverte l'esigenza di un dialogo con la morte, problematico in Million Dollar Baby, con l'eutanasia, e più spirituale in Hereafter, dove invece il mistero della vita resta tale nonostante gli sforzi dell'uomo per decifrarlo.

Gallery


{{PaginaCaricata()}}

Home | Cinema | Database | Film | Calendario Uscite | MYMOVIESLIVE | Dvd | Tv | Box Office | Prossimamente | Trailer | Colonne sonore | MYmovies Club
Copyright© 2000 - 2024 MYmovies.it® - Mo-Net s.r.l. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale. P.IVA: 05056400483
Licenza Siae n. 2792/I/2742 - Credits | Contatti | Normativa sulla privacy | Termini e condizioni d'uso | Accedi | Registrati