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Cesare Pavese

Cesare Pavese ha lavorato come scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, è nato il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Italia) ed è morto il 27 agosto 1950 all'età di 41 anni a Torino (Italia).

Nato da una famiglia piccolo-borghese d'origini contadine, orfano di padre ad appena sei anni, compie gli studi medi ed universitari a Torino, laureandosi con una tesi sulla poesia di Walt Whitman. Fondatore nel '33 - con Carlo Levi, Massimo Mila, Leone Ginzburg ed altri - della casa editrice Einaudi, dal 1934 direttore della rivista Cultura, trascorre poi un anno al confino pel suo coinvolgimento in attività antifasciste. Tornato a Torino, pubblica la sua prima raccolta di versi (Lavorare stanca, 1936) e continua nell'attività di traduzione di scrittori americani. Nella narrativa, debutta col romanzo - assai lodato dalla critica - Paesi tuoi (1941), già catalogo di temi ed atteggiamenti che verrano sviluppati nelle opere successive: la solitudine (tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri annota ne Il mestiere di vivere, il diario uscito postumo nel 1952), il contrasto insanabilecittà-campagna, le suggestioni della letteratura statunitense (l'attrazione criptoincestuosa di Talino per Gisella pare mutuata dalle torride atmosfere delFaulkner de L'urlo e il furore e di Santuario, o del Cain de Il postino suona sempre due volte). In seguito, diverrà centrale il mito del ritorno all'infanzia, alle colline, al mare: ne La spiaggia (1942), nei tre racconti racchiusi ne La bella estate (1949), nel capolavoro La luna e i falò (1950, premio Strega), esso è esposto con intensità e struggimento. Nell'ultimo lavoro, in particolare, il personaggio di Anguilla - ritornato dall'America, ov'era emigrato in cerca di fortuna, alle natìe Langhe - verifica con dolore quanto il presente abbia vetrioleggiato il passato: sparite le persone, cambiati i luoghi, cancellata finanche la dolcezza dei ricordi (i falò d'un tempo, mutatisi da rito propiziatorio a simbolo di orrori od ingiustizie), è costretto a constatare che "crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso". Un'ammissione di fallimento dalle manifeste connotazioni autobiografiche, destinata pochi mesi dopo a tradursi in un disperato gesto suicida. Rimane da dire dello stile, delle tecniche adoprate dal nostro nelle singole opere: il filo rosso è costituito da una vocazione lirico-evocativa riscontrabile in misura differente nei testi, si tratti d'una presa di coscienza (Il compagno, 1947), dell'incapacità di coinvolgersi d'un ritroso intellettuale (La casa in collina, 1948) o dell'analisi dei miti fondanti di tutti i libri in chiave antropologico-psicoanalitica (I dialoghi con Leucò, 1947). Simbolo tragicamente irrisolto dell'impegno politico (la sua militanza nel PCI) e del disagio esistenziale, Pavese resta uno tra gli scrittori più amati del dopoguerra, figura nodale d'un ventennio - quello che va dal '30 al '50 - tra i più vividi ed intensi della vicenda letteraria e culturale indigena.

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