di Marzia Gandolfi
Cinema e televisione sanno bene che a focalizzare l'interesse del pubblico sono soprattutto i 'personaggi' dal fascino epocale, di cui film o serie rievocano la storia e il carisma. Marco Polo rientra nella categoria di diritto. Mercante e avventuriero che raccontò la Cina all'Occidente, diventa materia narrativa e romanzesca per John Fusco, ideatore della superproduzione americana in onda su Netflix.
Dieci puntate da un'ora per raggiungere il cuore della Cina e la corte di Kublai Khan lungo coordinate drammaturgiche varie e complesse che non sempre rispondono a criteri di obiettività storica.
Perché Fusco non fa mistero della sua ambizione e come un esploratore conquista la scena con un gigantesco affresco storico largamente romanzato che illustra il viaggio del celebre mercante veneziano, sopravvissuto (nella serie) ad assalti e complotti di corte grazie al suo maestro di arti marziali. Oltre all'idealizzazione eroica che amplifica il ritratto su grandi passioni e sentimenti eterni o all'affabulazione romanzesca che colora il vissuto pubblico con invenzioni fantasiose e il privato con note piccanti, l'una e l'altra adottate per rendere accessibili allo spettatore ideologie intellettualmente astratte, nel biopic si insinuano anche altri possibili dislocanti parametri di riferimento, come ad esempio la performance del divo attore.
Ma a sorpresa l'ideatore della serie punta su un attore italiano poco conosciuto, affiancandolo a un altro artista italiano decisamente più celebre. Assoldato per coprire il ruolo paterno di Niccolò Polo, padre di Marco, Pierfrancesco Favino accompagna l'avventura di Lorenzo Richelmy, che a soli ventiquattro anni precipita nel XIII secolo e diventa una star. Niente Kevin Spacey o Robin Wright (House of Cards), questa volta Netflix scommette su un giovane italiano che possiede al suo attivo qualche apparizione in serie tv nazionali e ruoli da comprimario al cinema (Sotto una buona stella).
Pieno di una bellezza malinconica, prossima a quella di Helmut Berger, Lorenzo Richelmy accetta la sfida e si mette alla prova 'aggiustando' il suo inglese e imparando il kung-fu in una settimana, il resto lo fa la volontà di giocarsi la chance immergendosi in paesaggi che tolgono il fiato (i deserti della Mongolia, i tramonti di Venezia, la Cina dell'epoca) sia che li si guardi in alta definizione o che li si consumi sul proprio smartphone.
Spezzino di adozione romana, Lorenzo Richelmy respira da bambino il profumo del mare e l'intenzione del viaggio, salpando molto presto per il mondo dello spettacolo al seguito dei genitori attori teatrali. E a teatro comincia la sua carriera che converge al cinema, dove debutta nel 2002 con Carlo Vanzina (Il pranzo della domenica). Nel 2013 approda invece a Venezia, città del (suo) destino, con Il terzo tempo di cui è il protagonista adolescente e instabile col vizio del rugby.
Figlio ribelle di Carlo Verdone che lo 'avvia' sotto una buona stella, l'attore italiano coglie gli auspici favorevoli e centra il bersaglio, interpretando una serie sontuosa che promette meraviglie e una qualità estetica inesplorata fino ad oggi.
Se abitualmente l'attore condiziona il personaggio portandosi dietro impronte di una precedente esperienza, con Richelmy sperimentiamo la bellezza della prima volta.
La mancanza di profondità filmografica diventa al contrario privilegio funzionale al ruolo. La possibilità di esplorare, contigua a quella del giovane Marco Polo, rende Richelmy credibile e all'altezza. Corpo attoriale dinamizzato dall'esperienza esplorativa, Richelmy gioca, impara, educa e lascia il segno incontrando l'Occidente e l'Oriente, porzione di mondo che malgrado la globalizzazione mantiene intatto il suo mistero, iscritto nella distanza geografica e culturale. Occhi blu che sprigionano l'eros del suo avventuriero, lo sguardo di Richelmy si allinea con quello di un'epoca e di un Occidente che non aveva ancora conquistato niente e cominciava appena ad accumulare ricchezza. Una ricchezza carica di sensi e di sogni. Come quelli conquistati da Marco e Lorenzo.