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Dostoevskij, i fratelli D'Innocenzo: «La nostra non è una serie fast food»

I registi affrontano l’esperienza della serialità conservando intatto lo spirito che ha animato i loro film. Una serie con cui lo spettatore può interferire. Oggi in anteprima alla Berlinale e prossimamente al cinema.
di Giancarlo Zappoli

domenica 18 febbraio 2024 - Incontri

I fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo affrontano l’esperienza della serialità conservando intatto lo spirito che ha animato i loro film. La serie Sky Original Dostoevskij ideata, scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo, sarà presentata oggi in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, nella sezione Berlinale Special, poi arriverà prossimamente al cinema con Vision Distribution. La storia è ambientata in un lasso di terra scarno e inospitale, dove il poliziotto Enzo Vitello, uomo dal buio passato, è ossessionato da “Dostoevskij”, killer seriale che uccide con una peculiarità: accanto al corpo l'omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità che Vitello sente risuonare al suo interno.

Avete girato, in modo ormai abbastanza inusuale, in Super 16 millimetri...
Il cinema è fatto di atmosfera più che di tutti gli altri elementi cioè di quello che non è verbalizzabile. Volevamo delle immagini che avessero dentro una malinconia. A Sky inizialmente erano sorpresi ma hanno deciso di fidarsi. Temevano anche di dover usare luci addizionali mentre abbiamo tolto l'illuminazione. A noi piace essere fuori moda. Questo non vuol dire essere fanatici. I film precedenti li abbiamo girati in digitale.

Il passaggio alla serialità come è avvenuto?
Subito dopo aver visto Nils Hartmann, ci propose di fare una serie per Sky. Noi ci lavorammo, aveva già un titolo, Il proprietario, ed era un horror . Avevamo però ancora bisogno di rimanere un po’ nell’ambito delle due ore. Quando siamo tornati all’idea della serie abbiamo pensato inizialmente e fondamentalmente a come volevamo chiuderla. Volevamo che il nero fosse davvero nero e che ogni elemento di scena fosse letto come se ci si trovasse in prossimità di lasciarlo per sempre.

Come è stato il rapporto con Sky?
La libertà che ci è stata data non ha eguali. Hanno compreso quello che volevamo fare e c’è stata una grande coerenza da parte di tutti. Nel bene e nel male la serie è nostra e non ci sono stati interventi da parte della produzione per chiederci cambiamenti, né in fase di scrittura né in quella di montaggio.

Il passaggio dalle due ore alle sei e quindi anche ad un rapporto molto più  prolungato con attori e maestranze sul set, quanti cambiamenti vi ha richiesto?
Noi ci siamo formati su autori di racconti e romanzi brevi ma abbiamo poi saputo apprezzare anche libri di mille pagine. Le nostre sceneggiature sono molto precise tanto che sui nostri set gli attori sono bravi a sembrare naturali ma non improvvisano nulla. Però volevamo essere ’impauriti’ per rimanere creativi. Abbiamo quindi cambiato tutta la troupe. Come quando a scuola arrivavano nuovi compagni. Un esempio: il direttore della fotografia non aveva mai girato in pellicola, così come noi. Abbiamo così costruito insieme un processo di ricerca.

Il titolo c’era già dall’inizio? Non rischiate che si pensi che si tratti di un film biografico sul grande autore russo?
Amavamo Dostoevskij già da ragazzi. Lo trovavamo più vicino di tanti autori contemporanei. Per quanto riguarda il rischio che si faccia confusione l’idea ci piace. Amiamo la confusione.
 


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In foto Filippo Timi in una scena della serie. 

Quante stesure della sceneggiatura?
Pensiamo molto prima di iniziare a scrivere. Poi procediamo senza revisioni. Abbiamo poi fatto otto mesi di casting occupandoci personalmente della selezione anche dell’ultima comparsa.

Mentre scrivevate avevate già in mente Filippo Timi che a me in questa interpretazione ha fatto pensare a Gian Maria Volonté?
Dopo la stesura del primo episodio e di parte del secondo avevamo già pensato a lui però non lo conoscevamo personalmente. Appena arrivato abbiamo capito che Enzo era lui. È sempre creativo. Gli abbiamo chiesto di scarnificarsi così come i luoghi in cui ambientavamo la vicenda. Ha perso 15 kg ma soprattutto ha dentro una malinconia che sa esprimere senza che chi dirige debba intervenire. Noi siamo attenti anche a chi circonda i protagonisti di questo che ci piace definire, più che serie, un romanzo. Tutto deve essere coerente in questo mondo che abbiamo costruito e che vogliamo che sia ‘straniero’, non strettamente contemporaneo.

Come lavorate con gli attori?
Una volta scelti non chiediamo ulteriori prove. Però sul set, dall’ultimo componente delle maestranze al protagonista, tutti hanno letto il copione e sono consapevoli di cosa si sta facendo e di dove si colloca il lavoro della giornata.

Cosa pensate delle regole basilari del giallo codificate nel 1929 da Ronald A. Knox?
Sostanzialmente le rispettiamo perché non vogliamo barare con lo spettatore. La sincerità è la regola che ci ha guidato in tutti i quattro lavori realizzati finora.

In Dostoevskij si ha la sensazione come spettatori di poter interferire con la storia. Di non essere solo chiamati a stare davanti allo schermo passivamente. Era il vostro obiettivo?
Noi vogliamo restituire allo spettatore la possibilità di guardare. Pensiamo che se una scena funziona anche senza dialoghi abbiamo vinto. Volevamo esser chiari anche sui ritmi sin dall’inizio. La nostra non è una serie fast food.

Come avete scelto le location?
Non ci avvalliamo di immagini o di video  ma abbiamo bisogno di andare sui luoghi per comprendere se gli spazi sono coerenti con ciò che vogliamo narrare. Va aggiunto poi che noi siamo registi che rispettano i tempi di lavorazione e il budget perché amiamo il cinema e quindi detestiamo lo spreco.


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