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La zona di interesse, un film sull'orrore che fingiamo di non vedere

Il cinema ha cercato di raccontare l’irraccontabile. Jonathan Glazer ha una soluzione radicale: non mostrare lo sterminio, farlo sentire. Vincitore di due premi Oscar e ora in sala.
di Giovanni Bogani

La zona d'interesse

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sabato 24 febbraio 2024 - Focus

La banalità del male: era il termine che aveva coniato Hannah Arendt, negli anni ’60, per descrivere la deludente, quasi meschina dimensione del criminale di guerra nazista Adolf  Eichmann. Era andata in Israele a seguire il processo a questo gerarca nazista, responsabile delle deportazioni di milioni di ebrei. E vide davanti a sé solo un uomo ottuso, mediocre. 

La banalità del male. La normalità del male. La semplicità del male. Viene alla mente, eccome, vedendo La zona d'interesse, il film di Jonathan Glazer che a Cannes, il maggio scorso, ha vinto il Grand Prix du Jury, e che è ora candidato a cinque Oscar, fra cui quello per il miglior film. Un film sperimentale sull’Olocausto. Un Grande fratello nazista. Un film necessario, sull’abilità dell’uomo – e delle donne – di far sparire la coscienza sotto il centrino della tavola. Un film sull’orrore, che fingiamo di non vedere, oltre il giardino

La levigata pulizia del male. Perché sono pulite le immagini di Glazer. Perché il male non è solo nella faccia esaltata di Adolf  Hitler, nel suo ghigno diabolico. È, lo è forse ancora più, nella faccia dei suoi coscienziosi esecutori. E la rappresentazione più potente del Male – o forse l’unica che non cada nella trappola della retorica, di immagini mille volte già viste – è quella che organizza Glazer. Nell’unico film che sceglie di mostrarci Auschwitz senza far vedere Auschwitz. Senza farci vedere dentro Auschwitz. Ma lasciandolo fuori campo, come ciò che era insostenibile, la morte, nelle tragedie greche. Lasciandolo fuori dalla porta, lo rende ancora più compatto, più pesante, più insostenibile. 

Una casetta ordinata, gradevole. Un giardino verdissimo e curato. Con lo sguardo che si stende fino a un muro, un muro coperto da tre livelli di filo spinato. Dietro cui si staglia una ciminiera contro un cielo perfettamente blu. La casetta è quella di Rudolf  Höss, l’ufficiale SS che per anni ha comandato il campo di sterminio di Auschwitz. A causa sua, oltre un milione di uomini, donne e bambini, in massima parte ebrei, sono stati assassinati. Si chiama “Aktion Höss”, il piano che l’ufficiale attuò per “risolvere il problema” dello “smaltimento” di quattrocentomila ebrei ungheresi. 
 


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Torniamo al film. Da quando l’orrore dei campi di sterminio è apparso, in tutta la sua tragica vastità – e lo ha fatto abbastanza presto, con i filmati delle truppe americane che entravano a Buchenwald, Dachau, Mauthausen – il cinema ha cercato di raccontare l’irraccontabile, di farci i conti. Ogni narrazione ha cercato un angolo, un punto di vista, un protagonista diverso. Spielberg ha cercato un tedesco che si salvasse in quello sfacelo, e ha raccontato la storia di Oskar Schindler in Schindler’s List. Roberto Benigni ha trovato il modo di rendere più pesanti le lacrime mescolandole alle risate, in La vita è bella, raccontando il sublime sacrificio di un uomo che cerca di far ridere il figlio, per risparmiargli il pensiero dell’orrore. Ne Il figlio di Saul di László Nemes seguiamo per tutto il film un prigioniero ebreo ungherese che si occupa di far cremare i cadaveri usciti dalle camere a gas.

Ma c’è sempre il problema di come mostrare i campi di sterminio. Claude Lanzmann, regista di uno dei film più importanti che ricostruiscono lo sterminio degli ebrei, Shoah, aveva le idee chiare. Sosteneva che non è possibile immaginare che cosa sia accaduto nei campi, in quali forme, in quali modi. Meglio non provare a mettere in scena ciò che non conosciamo. 

E Glazer, in questo, ha una soluzione radicale. Non mostrare lo sterminio: farlo sentire. In La zona d'interesse è come se ci fossero due film. Quello che vediamo, e quello che sentiamo. Ed è nel sonoro, forse, l’invenzione più straordinaria del film. Sullo sfondo di ogni cosa che accade, c’è quel mormorio di morte, quella trama di suoni che si sentono, senza fine: suoni di treni che presumibilmente scaricano ebrei, ordini gridati in lontananza, raffiche di mitra, abbaiare di cani, urla indecifrabili. E un rumore continuo, come se un drago stesse respirando, di là dal giardino. Il rumore della morte stessa al lavoro. 

Sembra, ad ogni momento, che verremo introdotti nel campo di sterminio, che varcheremo quelle porte, che finiremo anche noi dentro l’orrore. E invece no. Siamo costretti a guardare l’inferno, sapere che c’è, e sentirne solo il suono lontano

 


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