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Alcarràs, un Orso d'Oro alla semplicità, l’elegia per una vita che ha perso la sua partita da tempo

Carla Simòn traccia un affresco profondo, sentito, autentico e in definitiva commovente sulla fragilità di un mondo, sui legami familiari, sulla vulnerabilità dell’infanzia. Film vincitore alla Berlinale 2022 e ora al cinema.
di Giovanni Bogani

venerdì 27 maggio 2022 - Focus

Una bambina di sei anni gioca con i fratellini in una Citroën abbandonata, fingendo che sia un’astronave che è arrivata troppo vicino al sole. Pochi fotogrammi dopo, una gru viene a portare via quell’auto, quei giochi, quel sogno.

Alcarràs si mostra subito, con onestà e chiarezza. Racconta di un mondo che si sta per perdere, racconta di un passato e di un presente che stanno per essere spazzati via. Alcarràs è il nome di un paesino rurale della Catalogna, il microcosmo in cui vive la famiglia Solé – che poi è il catalano per dire “sole”. Il film che porta questo titolo ha conquistato la giuria dell’ultimo festival di Berlino, presieduta da M. Night Shyamalan, e ha portato alla regista Carla Simón l’Orso d’Oro.

È un Orso che premia l’onestà, la nitidezza del racconto, la semplicità. La semplicità di un racconto organizzato intorno a un luogo, a quella terra, ad un “dove” che, per la famiglia Solé, è anche un come e un perché. Da quasi cent’anni lavorano quella terra, che fu offerta loro da una ricca famiglia in pegno di gratitudine, per averli protetti durante la Guerra civile spagnola. Peccato che, di quell’accordo, non restino documenti scritti. Peccato che una stretta di mano fra gentiluomini negli anni Trenta del Novecento valga meno di niente, di fronte al futuro che avanza.

Ci sarebbe anche una soluzione, accettare che gli alberi di pesco vengano tutti sostituiti da pannelli solari, e la famiglia potrebbe rimanere lì, anzi: potrebbe farlo lavorando di meno. Fino al prossimo strattone dato dal profitto, e dal futuro.

La cinepresa di Daniela Cajias si muove intorno alla fattoria con la naturalezza di un vento estivo, come felice di nutrirsi della luce del quasi tramonto, di giocare con le ombre. Il resto è la storia di come ognuno, nella famiglia Solé, reagisce al terremoto, al crollare della promessa di novant’anni prima. E ognuno di loro viene messo di fronte all’impossibilità di reagire, di vincere la battaglia.

Alcarràs è l’elegia per una vita che ha perso la sua partita da tempo. E a proposito di tempo, potremmo stupirci per i tempi del film, che s’incammina senza fretta. Ma, a pensarci, è una delle sue qualità. È come quando siamo alla fine dell’estate, e vorremmo che non finisse mai. Carla Simón, lo si percepisce, racconta qualcosa che la riguarda da vicino, in questa storia semiautobiografica: il villaggio di Alcarràs è quello in cui è nata. E c’è un’autenticità che viene fuori in ogni inquadratura, in ogni dialogo: la regista ha scelto un cast di attori interamente locali e non professionisti. E lo senti che, invece di recitare, di interpretare la parte di contadini, fanno e dicono semplicemente le cose che direbbero sempre.

Fra gli alberi di pesco e di fico, fra l’erba e il sole, Carla Simón traccia un affresco profondo, sentito, autentico e in definitiva commovente sulla fragilità di un mondo, sui legami familiari, sulla vulnerabilità dell’infanzia. Un racconto che non è privo, in più di un momento, di leggerezza. Ma che soprattutto, in ogni momento, sembra vero.

Se nel suo primo film Estate 1993, che nel 2017 fu presentato anch'esso alla Berlinale, Carla Simón si focalizzava su un personaggio centrale, qui è come se fosse riuscita a dominare un'orchestra intera di personaggi. C'è una polifonia di punti di vista, di prospettive. Ma tutti i personaggi sono raccontati con tenerezza, una tenerezza di sguardo che si estende allo spazio che sta loro intorno. Mentre ciò che sta cambiando non è solo il microcosmo della famiglia Solé, ma il mondo intero. In città, gli immigrati africani aspettano un lavoro che non arriva, e i contadini delle cooperative vedono i loro prodotti sempre più svalutati.

Lo scontro fra il vecchio e il nuovo permea tutto il film, fin dall'inizio, quando i ragazzini giocano dentro un'auto arrugginita che probabilmente ha smesso di circolare da prima che loro nascessero. E in tutto questo, la cosa più bella è che Carla Simón non sembra voler modellare l'ambiente alla sua narrazione. Al contrario, rende omaggio al mondo nel quale è cresciuta, a personaggi che conosce bene, e che ci fa amare.

Carla Simón filma la luce, gli alberi, i corpi modellati dal lavoro nei campi, le lumache sulla griglia, le risate, la festa di paese in cui si balla e si beve, le lacrime del padre. "In questo film, sono gli uomini che piangono", dice la regista, che ha solo trentasei anni. E che, senza grandi picchi drammatici, senza grandi colpi di scena, costruisce un flusso di immagini sempre significative, sempre dense di attenzione, di tenerezza, di intensità.


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In foto una scena del film Alcarràs.
In foto una scena del film Alcarràs.
In foto una scena del film Alcarràs.
In foto una scena del film Alcarràs.

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