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Ezio Bosso - Le cose che restano, le sfide di un vero anticonformista in un mondo pieno di pregiudizi

Giorgio Verdelli racconta la storia di un uomo, prima ancora che di uno straordinario artista, che non si è mai piegato a compromessi, a dispetto delle critiche e della sua malattia. Presentato alla Mostra di Venezia e ora al cinema.
di Giancarlo Zappoli

lunedì 4 ottobre 2021 - Focus

“La mia cultura del suono non prevede abbellimenti, ma un avvolgere l’ascoltatore e fargli vivere l’esperienza che ho avuto io stando nel posto dove si sente meglio l’orchestra”. Così si esprimeva Ezio Bosso a proposito del suo modo di intendere il rapporto con la materia prima della sua esistenza: la musica. 

Nel vedere Ezio Bosso. Le cose che restano si ha l’impressione che Giorgio Verdelli abbia fatto propria questa concezione traducendola in immagini, parole e suoni. Ha cioè costruito, grazie all’ampia documentazione preesistente e a quella realizzata da importante conoscitore del mondo musicale qual è, un’opera che punta a coinvolgere chi guarda ruotando attorno al fulcro costituito da Bosso. Coinvolgere, si badi bene, non commuovere. Che poi la commozione si faccia progressivamente strada nello scorrere dei minuti è un dato di fatto che è stato testimoniato dalla reazione del pubblico con una lunga standing ovation nella sala Grande della Mostra del Cinema di Venezia al termine della proiezione ufficiale. 

Ma Verdelli non pigia mai sul pedale della retorica che la malattia neurodegenerativa che aveva colpito il musicista avrebbe potuto suggerire di usare. Semmai quello che emerge è il ritratto di una persona e anche di un personaggio la cui fisicità, prima e durante la malattia, seppure ovviamente con modalità espressive diverse, diventava un tutt’uno con il suo fare musica. 

La gestualità di Bosso finisce così con il trovarsi al centro del suo sentire e comunicare la musica e le testimonianze di chi lo ha conosciuto o ha cooperato con lui non hanno mai lo scopo della beatificazione. 

Il primo a dichiararlo è Gabriele Salvatores che a Bosso ha chiesto la composizione delle colonne sonore di più di un film ma l’intero documentario è costellato di riferimenti al suo genio, alla sua profonda umanità ma anche al suo rigore nell’imporre alcune scelte artistiche. Così come non viene sottaciuta la diffidenza nutrita nei suoi confronti dalla parte più conservatrice del mondo della musica classica che non amava la sua passione per la divulgazione. 

Verdelli ci ricorda anche che Bosso non si è mai piegato a compromessi e lo fa dando spazio non solo al suo intervento al Parlamento Europeo nel giugno 2018 ma anche a una sua prestazione che forse altri avrebbero od omesso o ridotto nella durata. Il riferimento è alla sua presenza sul palco del Festival di Sanremo nel febbraio del 2016, una manifestazione di cui, misteriosamente, molti sanno tutto pur dichiarando di non guardarla. In quell’occasione Bosso non si era prestato a duetti più o meno compiacenti ma aveva lanciato un messaggio alla più vasta platea possibile. Il tornare ad ascoltarlo in questo documentario lo conferma come una delle cose che di lui restano come gesti realmente anticonformisti in un contesto in cui i pregiudizi non mancano e, nei suoi confronti, non sono mancati.


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