La casa dei libri è un film esemplare perché unisce in un colpo solo bibliofilia e amore per il grande schermo, con una storia esemplare ma tutt'altro che consolatoria. Al cinema.
di Roy Menarini
C'è un aspetto che unisce il mondo dell'editoria libraria e quello del cinema di qualità. Entrambi dipendono tantissimo dal pubblico femminile. Senza le lettrici e le spettatrici, entrambi i comparti chiuderebbero le saracinesche. Ed è davvero malinconico ascoltare sprezzanti commenti sui "film per donne" o sui libri per un target femminile. Nessun prodotto culturale, o quasi, è privo di criteri di riferimento sul pubblico potenziale, e ci mancherebbe altro. Ma le donne il "loro cinema" e la "loro letteratura" se li sono conquistati sul campo. Da questo punto di vista, La casa dei libri è un film esemplare, poiché unisce in un colpo solo bibliofilia e amore per il grande schermo, con una storia esemplare - certo - ma tutt'altro che consolatoria.
Certo, per apprezzarlo bisogna mettere da parte il radicalismo cinefilo, dimenticare certe sentenze di Truffaut ("cinema inglese è una contraddizione in termini"), non farsi irritare da un approccio minimalista, elegante, sussurrato e talvolta stucchevole. Ma ogni film è sempre un esempio di come il cinema negozia la sua esistenza, e sopravvivenza, con il mondo. Di come il cinema sta parlando di se stesso mentre parla d'altro.
La casa dei libri era un romanzo sull'amore per la lettura ed è ora un film, nuovamente, sull'amore per la lettura. La sua letterarietà è fuori discussione. Scoprire come a volte la letteratura sia stata messa in pericolo non da oscurantisti pronti a bruciare i volumi ma da mecenati interessati a polverosi "centri per l'arte" fa comprendere come anche dentro il mondo della cultura e dei "bon vivant" ci siano limiti e pregiudizi.
In particolare, la letteratura che fa avanzare il proprio tempo, spiazza le attese, sconvolge i benpensanti, alza l'asticella, modifica gli schemi di comprensione del mondo, è raccontata nel film come una benedizione che attraversa le generazioni. Se l'anziano amante dei romanzi aspetta avidamente ogni nuovo scrittore e ogni nuova proposta letteraria che gli viene recapitata per posta, è a una ragazzina che viene in mente alfine il gesto più radicale di tutti, una distruzione che costruirà il suo futuro di libraia. L'immediata comprensione delle cose rende la mente pigra, come spiega il personaggio di Edmund Brundish (cui Bill Nighy offre un nuovo tassello della sua straordinaria intelligenza interpretativa): a che cosa servono i libri se li capiamo subito e se ci confortano in ciò che già pensiamo di sapere?
E questa in fondo è a sua volta una contraddizione. Come è possibile girare un film composto e posato su quanto sia generativa la letteratura più sorprendente e insubordinata, da Vladimir Nabokov a Ray Bradbury?
Contraddizione forse non risolta, ma che Isabel Coixet ha bene in mente se è vero che - seguendo il romanzo di Penelope Fitzgerald del 1978 - non concede facili scappatoie. La storia della libertà di espressione artistica è una vicenda di molte sconfitte e poche vittorie. Ma quelle poche sono in grado di modificare il futuro.
E chissà che un'opera così legata al femminile - la grazia puntuta di Emily Mortimer fa un favore al personaggio, non rendendolo prevedibilmente caritatevole - non stia anche mettendoci in guardia di fronte a nuovi oscurantismi, persino quelli che entrano malevolmente in scia di battaglie sacrosante per i diritti delle donne.