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Tomboy, una strategia produttiva diversa è possibile

Presentato a Roma il nuovo film della regista Céline Sciamma.
di Marianna Cappi

In foto (sulla sinistra) Zoé Héran, giovane protagonista di Tomboy di Céline Sciamma.

mercoledì 28 settembre 2011 - Incontri

È Vieri Razzini, per la Teodora Film, a presentare alla stampa romana Céline Sciamma e il suo Tomboy, nella splendida cornice di Palazzo Farnese. Il maschiaccio (“tomboy” in inglese, appunto) del film è Laure, una ragazzina che, un po’ per sfida e un po’ per desiderio, si presenta agli amici del nuovo quartiere come un maschio e regge il gioco fino alle estreme conseguenze, con la complicità della sorellina Jeanne. Ma è proprio sottolineando, invece, la nuova forza del cinema delle donne che Razzini lo introduce, parlando di un contributo più sensibile e meno consumato dal mestiere. Al secondo lungometraggio dopo il fortunato esordio in Francia di Naissance des pieuvres, la regista conferma con questo film una relazione particolare tra i cineasti francesi e l’infanzia (basta pensare a Vigo, Truffaut, Malle) ma anche la possibilità per una piccola storia come questa di parlare ad un pubblico universale e raggiungere un mercato internazionale.

Colpisce, nel film, la reazione brusca della madre di fronte al comportamento della figlia. Cosa l'ha spinta a far reagire l'adulto in modo tanto sbrigativo e indelicato?
C. Scianna: Volevo fare un film su una famiglia nella quale c’è amicizia, dialogo, tenerezza e le cose vanno bene. La madre non è più rigida del padre, in realtà. La bambina è già un ragazzo mancato, le è permesso di vestirsi da maschio, di tenere i capelli corti: la famiglia è accogliente verso questo suo comportamento. Il padre, se mai, può apparire più permissivo: la fa guidare e le fa assaggiare la birra, che è una cosa che ho messo anche un po' per divertirmi. La decisione violenta, nel mio pensiero, non è solo della madre: dopo la rivelazione sulla sua vera identità sessuale, c’è la scena in cui le due sorelle dormono insieme e in un primo montaggio si sentivano i genitori parlare del da farsi. Poi l'ho tolta, ho preferito concentrarmi sulle due sorelle, ma si può ancora supporre che i genitori abbiano deciso insieme durante la notte cosa fare l'indomani, anche se poi è solo la madre che se ne occupa. Non volevo fare un film con gli adulti eroi e i bambini di contorno, ma nemmeno il contrario. Per me la madre reagisce soprattutto alla bugia della figlia, non al fatto che la figlia sia un maschiaccio. All'inizio prende una decisione goffa – l'imposizione del vestito - poi però viene anche il dialogo – "capiscimi, non ho altra scelta"- perché è un genitore normale, umano, che può sbagliare. Non m'interessava redigere un manuale del perfetto genitore, e mi muovevano anche delle scelte di cinema: volevo vedere la protagonista con un vestito da femmina, perché sembra più mascherata di quanto non lo sembri prima con i pantaloncini e la maglietta.

Come ha lavorato con i bambini?
Il film è stato fatto molto velocemente. L'ho scritto in tre settimane, ad aprile, ho fatto il casting in tre settimane, nessuna prova perché non c'era tempo e l'ho girato in agosto in 20 giorni, quando la media sono 40. Ma per me è stata una cosa molto positiva, non un compromesso. Non fare prove mi ha permesso di catturare l’energia dell'infanzia, del presente, di fare un film del presente, anche se è stato indubbiamente angosciante. Lavorare con i bambini è contraddittorio: bisogna lavorare come con dei veri attori, riportarli al lavoro, alla concentrazione, all'impegno e soprattutto al loro personaggio, continuamente. E allo stesso tempo dev'essere un grande gioco. Io ho annullato dunque i soliti dettami del set: il silenzio imposto, i tanti stop. Non fermavo mai la macchina da presa, entravo in scena, ballavo, parlavo, non fermavo mai. E poi è diverso lavorare con una ragazzina di 10 anni, che può concentrarsi, e con una di 6, che invece guarda sempre in macchina e non sembra naturale. Per questo già in sceneggiatura le ho messe sempre a fare qualcosa – un puzzle, il pongo, un disegno - e ho girato come fosse un film d'azione.

Come è stato fatto il casting?
È stato un casting selvaggio, perché non c'era tempo: per strada, nei corsi di teatro, ma anche presso un'agenzia di piccole attrici. Temevo l'agenzia perché di solito le bambine vengono dalla pubblicità, ma è grazie ad essa che ho visto Zoé Héran (la protagonista, ndr), il primo giorno, e l'ho scelta subito. Aveva già girato delle pubblicità ma non troppe, perché è davvero un maschiaccio, ed era perfetta per via di questa fotogenia che rende il suo viso indimenticabile. Abbiamo tagliato i capelli e poi il resto del casting l'ho fatto in sua funzione: la sorellina l’ho presa in base all’alchimia che si è creata con Zoe, mentre gli altri sono dello stesso quartiere, sono veri amici. L'unica che ho trovato per caso è la ragazzina che interpreta Lisa. Lei l'ho vista in un bar e i ragazzini che si incontrano nei bar sono sempre molto interessanti.

Ti sei ispirata ad un romanzo o ad un racconto?
Non ci sono libri che raccontano quello che volevo raccontare io: una ragazzina che mette il suo piccolo fallo di pongo nella scatolina dei dentini! Ma certamente ho pensato all'Argent de poche (Gli anni in tasca di Francois Truffaut) e ai film di Spielberg, nei quali crescere è una grande avventura. E poi tanto è frutto dei miei ricordi personali dell’infanzia.

La sua famiglia è italiana. Che rapporto ha con l’Italia?
Si, i miei nonni erano italiani e da loro ho ereditato il calore, la tenerezza e l'abitudine ad esprimere apertamente le emozioni in famiglia. La cosa più intima e che mi appartiene di più del film, infatti, è la relazione tra le due sorelle, più ancora dell’aspetto del maschiaccio, anche se ero un po' così. La mia famiglia era tutta composta di italiani, italiani d'Egitto, ebrei, che con la guerra si sono sparpagliati: qualcuno è venuto in Francia, altri in Italia, qualcuno in Australia e altri in America. I miei nonni sono diventati francesi e cattolici, mia sorella vive a Roma, sposata con un romano, e poi ho parenti in Toscana e a Milano. Per questo spero con tutto il cuore che il film andrà bene anche in Italia, o me ne vergognerò molto.

Che tipo di eco sta avendo il film all'estero?
Tomboy è già stato venduto in 30 paesi. È francese per l’argomento (l’infanzia) e il modo tenero e misurato di abbordarlo, ma c'è anche qualcosa di anglosassone, specie nell'estetica. È una sorta di film ponte tra queste due culture cinematografiche.

Fare un film in tre mesi in Italia sarebbe impossibile. Come ha fatto a trovare i finanziamenti in un tempo tanto breve?
Volevo farlo subito e dunque non avevamo il tempo per chiedere i soldi allo Stato e passare dai soliti circuiti di finanziamento, dunque insieme alla produttrice del mio primo film, ci siamo impegnate per trovare solo i soldi che servivano per girare, vale a dire 500 mila euro. La maggior parte sono venuti da Canal plus, che li ha erogati sulla base del successo del mio film precedente, poi un distributore, qualche banca.
Dunque soldi privati, all'inizio. Poi, girato e montato, il film ha ottenuto altri soldi, ma è costato comunque meno di un milione di euro in tutto. Farlo così è stato anche un gesto politico: volevo dimostrare che è possibile. Le cose sono complicate quando il film costa tanto e non ci sono abbastanza soldi, ma non era questo il caso. Un film che ci mette tanto ad essere realizzato, specialmente un secondo film (che è il più difficile) diventa una mummia e c'è qualcosa di quasi morboso in un film che non è più contemporaneo. Un secondo film non deve essere fatto, secondo me, con più soldi ma con maggior libertà. Non ho sacrificato nulla ma l'ho scritto mettendomi dei limiti: 50 sequenze in tutto, due ambienti soltanto. Con grande libertà e grande ambizione: è stato questo il gesto politico. E il pubblico è ricettivo a questa pratica alternativa, tanto che in Francia ha venduto già 300mila biglietti.

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