Titolo originale | Diana Vreeland: The Eye Has to Travel |
Anno | 2011 |
Genere | Documentario, |
Produzione | USA |
Durata | 86 minuti |
Regia di | Lisa Immordino Vreeland |
Attori | Diana Vreeland . |
Uscita | giovedì 6 dicembre 2012 |
Distribuzione | Feltrinelli Real Cinema |
MYmonetro | 3,11 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 7 febbraio 2014
La sagacità di una donna controcorrente che ha riscritto l'approccio al giornalismo sulla moda. Al Box Office Usa Diana Vreeland: L'imperatrice della moda ha incassato nelle prime 10 settimane di programmazione 913 mila dollari e 64,2 mila dollari nel primo weekend.
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CONSIGLIATO SÌ
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L'icona di stile del ventesimo secolo non è stata una modella né una stella di Hollywood, bensì una giornalista. Diana Vreeland conquistò sul campo il titolo di imperatrice della moda, dettando regole di gusto ed eleganza a un'intera generazione di celebrità. «L'occhio deve viaggiare». Fu questo il mantra che guidò il lavoro della Vreeland come editor della rivista femminile Harper's Bazaar prima (a partire dagli anni Trenta) e come redattrice capo di Vogue America poi (dal 1962 al 1972). Un motto che la spinse a concepire i servizi di moda come reportage realizzati in giro per il mondo e strutturati come storie che suscitavano una visione romantica della moda. Il tutto all'insegna di un'originalità fuori dal comune.
Il documentario diretto da Lisa Immordino Vreeland, nipote della giornalista scomparsa nel 1989, ci racconta la vita e soprattutto la carriera di questo genio creativo e anticonformista, che detestava la noia e la banalità. Con l'ausilio di filmati di repertorio, scatti patinati, fotografie d'autore e interviste a familiari, collaboratori e amici della Vreeland, la regista tratteggia il ritratto scanzonato, leggero e colorato di una donna che riuscì a diventare simbolo di bellezza pur non essendo affatto bella (la madre la trattava come il brutto anatroccolo di famiglia). Una donna che si propose di emergere in un mondo dominato dagli uomini, imponendo la figura della ragazza ambiziosa e stravagante e anticipando le tendenze, incurante degli scandali (come quando sdoganò il bikini e i blue jeans).
Sono molte le dive che la caporedattrice lanciò dalle pagine di Vogue, da Lauren Bacall a Twiggy, da Brigitte Bardot a Cher, da Lauren Hutton ad Angelica Huston, passando per Marisa Berenson. Alcune raccontano la loro esperienza nel documentario, al pari dei fotografi di successo (su tutti Irving Penn) che hanno messo il loro talento al servizio dell'estro della Vreeland e degli stilisti che la stessa ha contribuito a far affermare (come Missoni, Valentino, Calvin Klein e Oscar de la Renta). Ma sono soprattutto gli estratti delle interviste alla Vreeland che compongono il quadro di una donna irriverente e dall'energia vulcanica, che adorava la mondanità e i fermenti culturali della Parigi della Belle Epoque, in cui nacque, e che trovò nel fervore libertario, giovanilistico e anticonformista degli anni Sessanta le più fertili condizioni di ispirazione.
«Non conta tanto il vestito che indossi, quanto la vita che conduci mentre lo indossi». Così la pensava la Vreeland e questo insegnamento se lo cucì addosso, concedendosi al lusso e al divertimento sfrenato e riuscendo a «morire giovane» all'età di 86 anni, lavorando fino alla fine. Dopo l'avventura di Vogue, infatti, si impegnò come consulente tecnico dell'Istituto del costume del Metropolitan Museum of Art, che osò trasformare in una sorta di night club, con sommo scandalo dei benpensanti e straordinario successo di pubblico e celebrità.
Una dedizione alla carriera, quella della Vreeland, che la portò a trascurare la vita familiare, come emerge dalle interviste ai figli, che la dipingono come «una donna priva di emozioni, che non si interessava alle cose convenzionali da madre ordinaria». Sono queste le uniche ombre in un ritratto che predilige i chiari agli scuri, come se la regista non volesse macchiare l'agiografia della Vreeland, rispettando la volontà della stessa giornalista, che preferiva parlare della sua straordinaria carriera piuttosto che della vita privata. Del resto, una donna così esperta nella costruzione dei miti altrui non poteva che applicare le medesime regole alla creazione della propria leggenda.
La rubrica che la lanciò si chiamava Why don't you? Dispensava consigli utili e assolute stravaganze. «Perché non sciacqui i capelli di tua figlia nello champagne per mantenerli dorati? Perchè non metti un copriletto di scimmia bianca sul velluto giallo?», scriveva provocatoriamente quella che doveva diventare una leggenda. Le sottilissime mani con unghie smaltate rosso lacca.