Laurence Olivier (Laurence Kerr Olivier). Data di nascita 22 maggio 1907 a Dorking (Gran Bretagna) ed è morto il 11 luglio 1989 all'età di 82 anni a Steyning (Gran Bretagna).
L'11 luglio 1989, dopo una lunga e sofferta malattia, il cinema e il teatro perdevano uno dei più grandi attori shakespeariani del nostro secolo. Sir Laurence Kerr Olivier (era diventato baronetto per i suoi meriti artistici) era nato a Dorking, nel Surrey (Inghilterra), il 22 maggio 1907. Stando ai racconti quasi leggendari, il padre, un pastore protestante con la passione per il teatro, lo spinse giovanissimo ad interpretare il "Giulio Cesare" di Shakespeare in una recita parrocchiale.
A 17 anni entra alla Central School of Speech Training and Dramatic Art, dove studiò con Claude Rains.
Nel 1926, si unisce alla Birmingham Repertory e a vent'anni è già tra i protagonisti della compagnia teatrale. Ma il teatro rende poco e la crisi del '29 lascia il giovane attore senza ingaggi. Allora, di malavoglia, decide di interpretare alcune pellicole per il neonato cinema sonoro. Nel 1931 si trasferisce ad Hollywood con la moglie, Jill Esmond, e interpreta una serie di film commerciali. La prima esperienza americana è però deludente e Olivier è costretto a tornare in Inghilterra dopo aver subito l'umiliazione del licenziamento dal set durante le riprese di La regina Cristina (pare su pressione di Greta Garbo). Per Olivier il capitolo Hollywood sembrava chiuso per sempre, del resto in patria lo attendevano stagioni d'oro al risorto teatro Old Vic.
Ma il grande attore rimane ancora legato al cinema: nel 1936 interpreta la parte di Orlando in Come vi piace da Shakespeare. Solo per insistenza di Vivien Leigh, il suo nuovo grande amore (i due si sposeranno nel 1940), accetta di girare La voce nella tempesta di William Wyler. Il suo tenebroso Heathcliff è seguito da un mitico Max de Winter in Rebecca di Hitchcock e da un sarcastico Darcy in Orgoglio e pregiudizio. Il ritorno a Hollywood è tanto fulmineo quanto strepitoso (due nomination all'Oscar).
Nel 1941 torna in patria per arruolarsi tra i paracadutisti, ben intenzionato a combattere il nazismo. Non finirà mai al fronte, ma darà il suo contributo alla vittoria girando per conto del Ministero della Propaganda l'Enrico V. Con questo film, per la prima volta, Olivier si cimenta anche nella regia e nella sceneggiatura. La pellicola ottiene un successo strepitoso: Olivier riceve un Oscar speciale 'per lo straordinario risultato ottenuto come attore, produttore e regista'. Negli anni successivi proseguirà nella diffusione del teatro portando sul grande schermo altre opere shakespeariane (nel 1948 il suo Amleto vince il Leone d'Oro e quattro Oscar) e pezzi più moderni come Il principe e la ballerina da Terence Rattigan, al fianco di Marilyn Monroe, e The Entertainer da John Osborne.
Olivier ha anche il merito di aver presto compreso il grande potere della televisione: presentò sul piccolo schermo numerose registrazioni di sue pièce teatrali, da Cechov a Strindberg. Intanto nel 1960 divorzia anche dalla Leigh e sposa l'attrice Joan Plowright, conosciuta sul set di The Entertainer. Continua a lavorare per il cinema in film più o meno importanti, collezionando ben undici nomination agli Oscar.
Direttore del National Theatre dal 1963, nel 1970 Sir Laurence Olivier va ad occupare un seggio alla Camera dei Lord. Nel 1974, appare per l'ultima volta in teatro: negli anni seguenti sarà nel cast di moltissimi film, non tutti eccezionali, ma sempre nobilitati dalla sua presenza.
Nel 1979 Laurence Olivier è stato premiato ancora dall'Academy Award con un Oscar alla carriera. Negli anni Ottanta prosegue il suo lavoro sia in televisione che al cinema, comparendo per l'ultima volta in War Requiem di Derek Jarman. Il grande interprete shakespeariano è morto a Steyning, nel Sussex, l'11 luglio 1989 ed è stato sepolto nell'abbazia di Westminster, a Londra.
Maxim De Winter, ambiguo, in Rebecca di Hitchcock, Teathcliff, il torvo violento, in La voce nella tempesta di Wyler, mister Darc l’arrogante, in Orgoglio e pregiudizio di Leonard, Orazio Nelson, il rigido, in Lady Hamilton di Korda: con quegli occhi che potevano passare dal disprezzo alla passione nel tempo di un battito di ciglia, quella fronte che pareva muoversi da sola e, soprattutto, quel labbro superiore «dalla linea fastidiosamente sottile e dura, ereditata così da mio padre, utile solo per recitare la parte del nazista duro, cosa che mi è capitata solo una volta nel Maratoneta. (e talvolta mascherata dai balli, in gioventù, e dalla barba, in vecchiaia), Laurence Olivier incarnò, in un pugno di film tra gli anni 30 e 40, l’ideale del bel tenebroso, raffinato, imperscrutabile, pericoloso fino all’ultimo abbraccio risolutore, che il cinema aveva ereditato dalla letteratura romantica. Da amare disperatamente, anche se ha ucciso la prima moglie, se è pronto a uccidervi e malmenarvi, se vi tratta con la supponenza riservata a una sciacquetta di rango inferiore. Il più bello e affascinante dei re della scena inglese (gli altri erano John Gielgud e Ralph Richardson) non disdegnò mai Hollywood. la fama e il denaro che la Mecca dei cinema poteva procurargli, e accettò di ritornarvi nel 1939, nonostante lo smacco inglorioso del 1932, quando la Divina Garbo lo aveva sdegnosamente rifiutato come partner nella Regina Cristina. Heathcliff di La voce nella tempesta, Heathcliff che non riesce a domare i suoi istinti e urla al vento della brughiera, che ruba la grande scena finale alla morente Catherine Merle Oberon, lo trasformò in una star internazionale, il prim’attore romantico esasperato che il mélo cercava. Ma né per il cinema né per le passioni della vita vera (tre mogli, due delle quali grandi amori: Vivien Leigh, vent’anni di matrimonio e di nevrosi, e Joan Plowright, sua moglie dal 1961 alla sua morte, 15 anni fa, l’11 luglio del 1989) trascurò mai il teatro, per il quale, aveva decretato suo padre, rigidissimo e avaro pastore anglicano, era nato. Gran bugiardo e un po’ vigliacco fin da piccolo (lo racconta nelle sue memorie, il bel Confessioni di un peccatore), davanti a un pubblico diventava spavaldo e persino strafottente (anche se fu afflitto, a metà degli anni 60 e per circa 5 anni, da una grave forma di “stage fright” - panico da palcoscenico). Fece Amleto nel 1937, a trent’anni, anche lui «per togliersi il pensiero» come farà a venticinque Kenneth Branagh, che insegue il mito di Olivier fin dalla linea sottile del labbro superiore; fece Romeo e Mercuzio alternandosi ogni sera nelle parti con John Gielgud, Enrico V e Macbeth, Riccardo III e Re Lear, Zio Vania, un leggendario Edipo re e Cesare e Antonio, ancora a sere alterne, nella commedia di Shaw e nel dramma di Shakespeare, con la Cleopatra Vivien Leigh. Interpretava, dirigeva, produce, all’Old Vic e, dagli anni 60l National Theatre di Londra. Nel frattempo il Divo della scena inglese aveva anche fatto man bassa di Oscar e riconoscimenti: costretto quasi per caso a esserne anche regista, nel 1945 trasformò quello che poteva essere un pomposo esemplare di teatro filmato, l’Enrico V, in una gloriosa epopea, suoni, voci, colori, lo slancio della battaglia e delle frecce contro il sole, i corpi avvinghiati di Paolo Uccello e il ritmo eroico di Eisenstein. Nel 48 fu la volta di Amleto, lettura psicanalitica e gotico svettante, e nel Riccardo III, macabro ai limiti dell’horror e concentrato in uno spazio claustrofobico, dove il re sanguinario si aggira come un serpente seduttore. Negli anni 60, quando è ultracinquantenne, le sue interpretazioni cinematografiche si affinano, se è possibile, ancora di più. Svanito il cliché romantico (tranne che per il brillante Il principe e la ballerina, dove cede lo schermo a Marilyn Monroe, e per il meraviglioso Amore tra le rovine di Cukor, commedia dolce-amara sugli affanni dei vecchi cuori, interpretata con Katharine Hepburn), balzano in primo piano l’ambiguità del sorriso e la sfuggente inquietudine del suo sguardo. L’umanità affina la tecnica, nell’omosessualità non solo suggerita del Cassio di Spartacus, nell’autodistruzione rovente e masochísta degli Sfasati di Richardson, da Osborne, che portò anche sulle scene, nel dolore quieto dell’ispettore di polizia di Bunny Lake è scomparsa, nella crudeltà elaborata e sottotono del dentista nazista del Maratoneta. Quando nel 1983, a settantasei anni, malato e da tempo assente dal teatro e dallo schermo, interpretò per la televisione uno straziante Re Lear, erano la fragilità e la vecchiaia dell’attore che andavano in scena, in uno struggente denudamento che solo i grandi sanno raggiungere.
Da Film Tv, n. 28, 2004
Gigione sopraffino come attore (indimenticabili i personaggi di Gli sfasati, 1960, di Tony Richardson e di Gli insospettabili, di J.L. Mankiewicz; formidabile la breve caratterizzazione del dentista in Il maratoneta, 1976, di John Schlesinger), cultore di Shakespeare e della psicoanalisi, apporta alla regia cinematografica un gusto fra l'aulico e il nevrotico che non avrà eredi (gli altri shakespeariani, come Kenneth Branagh, punteranno al realismo antiaccademico). Dopo aver fatto le sue belle e importanti prove di attore a Hollywood (La voce nella tempesta, 1939, di William Wyler; Rebecca, la prima moglie , 1940, di Alfred Hitchcock; Orgoglio e pregiudizio,1940, di Robert Z. Leonard; Lady Hamilton, il grande ammiraglio, 1941, di Àlexander Korda) ed avere rinverdito la tradizione del teatro inglese, assume Enrico V (1944) come esempio di racconto epico e come manifesto di volontà di vittoria contro il nemico esterno: Shakespeare e la guerra si fondono in una allegoria elegantemente colorata dell'indomabile coraggio inglese. È uno spettacolo sontuoso, avventuroso e mosso (la battaglia di Azincourt con gli sbarramenti «anticarro» e il lancio di nugoli di frecce è una grande pagina di cinema), che conferisce a Olivier i gradi di regista principe. Quattro anni dopo, rinnovando l'interpretazione psicoanalitica già esposta in teatro (il complesso di Edipo, il morboso attaccamento fra madre e figlio), realizza un Amleto in bianco e nero di forte impatto emotivo e di grande efficacia visiva. Torna al colore, trattato con una illuminazione effettata non sempre idonea allo sviluppo del discorso poetico, e inscena il Riccardo Ill (1955), la più fosca delle tragedie shakespeariane, per ritrovare la felicità espressiva dei film precedenti ma spingendo sino al limite, e con suggestivi risultati, la carica nevrotica contenuta nel personaggio.
Era figlio di un pastore anglicano discendente dagli Ugonotti. Sir dal 1947, nel 1970 riceve il titolo di barone e l'anno seguente entra alla Camera dei Lord. È stato marito di tre attrici: Jill Esmond, Vivien Leigh e Joan Plowright.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Come per quasi tutti i maggiori attori teatrali inglesi del secolo, anche per Laurence Olivier il cinema fu soltanto un comodo mezzo per avere guadagni più alti e una fama più larga. Lo fu almeno all'inizio della sua prestigiosa parabola artistica, ma lo sarà anche verso la fine. Nato il 22 maggio 1907, era in teatro dal 1925 e apparve sullo schermo a partire dal 1930, dividendosi tra Gran Bretagna e Stati Uniti in film senza storia. Nel 1932 ebbe però la sua prima grande occasione ma anche il suo 25 luglio. Come il fascismo, se ci si passa l'accostamento davvero irriverente.
Il 25 luglio fu appunto il giorno del provino supremo accanto a Greta Garbo che l'aveva scelto come partner per La regina Cristina. Veramente ne aveva già scelti e scartati altri, perché il suo cuore era pur sempre fissato su John Gilbert, suo amante del muto, che una cattiva voce eliminava dal cinema parlato. All'inizio del 1927 La carne e il diavolo era stato il terzo film della diva e quello del suo lancio definitivo. Più famoso di lei, John Gilbert l'aveva accettata al suo fianco e l'attrice provava riconoscenza.
Dopo uno scambio di telegrammi con la produzione, nei quali il giovane inglese s'era preoccupato solo della parte amministrativa, eccoli l'uno di fronte all'altra, l'uno più timido dell'altra. Laurence era uno spagnolo con baffi alla Ronald Colman e accento oxfordiano, che nella camera da letto d'una locanda doveva svegliare il fuoco della passione nella glaciale svedese. Tutto il Regno Unito tifava in quel momento per lui, ma Greta guardava oltre le sue spalle, implorando con gli occhi il regista Mamoulian di toglierla da quella situazione imbarazzante. Il ruolo di don Antonio fu poi regolarmente assegnato a Gilbert, e l'incolpevole Olivier giurò allora che del cinema non avrebbe più voluto saperne.
E quando gli proposero la parte di Romeo, accettata in seguito dal più stagionato Leslie Howard, rispose di non credere ai film scespiriani, lui che con essi doveva passare alla storia del cinema! In effetti tra cinema e teatro ci fu in principio uno strano rapporto, nella carriera del futuro sir Laurence, il primo degli attori insignito del titolo di baronetto. Il cinema non giovava al teatro e il teatro non giovava al cinema, in quel primo periodo in cui i due mezzi convivevano in lui da estranei, anzi da nemici. I tradizionalisti dell'establishment scespiriano ritenevano troppo frivole le sue prestazioni cinematografiche, insomma qualcosa come
«molto rumore per nulla». E i patiti del film d'avventure non gradivano quell'attore troppo forbito, che commerciava coi classici. Nel 1936 in Inghilterra, comunque, Olivier già si smentiva accettando il ruolo di Orlando in una versione per lo schermo di Come vi piace, diretta da Paul Czinner per la moglie Elisabeth Bergner, l'illustre attrice di lingua tedesca, ma anche inglese, mancata il 12 maggio 1986 a 85 anni. Paradossalmente, fu proprio il gran rifiuto di Greta Garbo a fargli prendere il cinema per il verso giusto, fu proprio Come vi piace a fargli sentire che Shakespeare sullo schermo non andava recitato così.
Intanto, sempre in patria, egli si accontentava di amoreggiare con Vivien Leigh nella vita, e di averla come compagna anche sullo schermo: erano i due amanti elisabettiani, appunto, di Elisabetta d'Inghilterra (1937). Ma Laurence, ormai padrone di se stesso in teatro, non sapeva ancora muoversi con scioltezza nel cinema. Glielo insegnò William Wyler a Hollywood, guidandolo nel film La voce nella tempesta (1939) al successo internazionale: fu il «bel tenebroso» Heathcliff da lui incarnato a compiere il miracolo. Nel 1940 le due prove in Rebecca di Hitchcock e in Orgoglio e pregiudizio confermarono il suo approdo al divismo. E come divo hollywoodiano interpretò ancora Lady Hamilton (1941), in cui riebbe finalmente al fianco Vivien Leigh che gli era sfuggita nei film precedenti, anche perché impegnata nel trionfo personale di Via col vento.
Ma appena seppe che l'Inghilterra era in pericolo, egli rientrò a Londra e si apprestò a fare qualcosa per la patria. Ciò che fece annullò tutte le affermazioni del passato. Fu il primo vero film scespiriano della storia. Enrico V (1943-1944) non soltanto lo confermò in cinema attore degno delle sue migliori creazioni teatrali, ma lo rivelò anche regista di notevolissimo livello. E quando nell'immediato dopoguerra lo si vide in Italia, in una manifestazione culturale che proponeva anche Ivan il Terribile di Ejzenstejn e Les enfants du paradis di Camé, qualcuno pensò che si fosse aperta una nuova fase del cinema, una «terza via» in cui la settima arte si confrontava da pari a pari con le altre sei.
Laurence Olivier partiva dalla convinzione finalmente maturata che Shakespeare fosse già nel Seicento un immenso autore di cinema, che i suoi dialoghi e i suoi tagli di racconto fossero già sceneggiature, che i colloqui dei suoi personaggi con gli spettatori più vicini in platea fossero già «primi piani», che la sua fantasia di drammaturgo fosse talvolta paralizzata dal limiti spaziali del palcoscenico e invitasse fin da allora a superarli. «Colmate col vostro pensiero le nostre lacune» è l'invito scespiriano accolto dal neocineasta, consapevole che il nuovo mezzo gli permette di ampliare il campo dell'azione, pur restando fedele al testo e, anzi, tagliandolo meno che in teatro. Egli ricostruisce il piccolo Globe Theatre come per una recita del tempo dell'autore, ponendo un accento particolare sul tema centrale del dramma, ossia sull'«unione che tutti stringe nell'ora del pericolo», e della quale c'era più che mai bisogno al momento della produzione del film.
«Di un uomo fatene mille e createvi un imponente esercito immaginario», suggeriva Shakespeare. E Olivier fa del Globe il punto di partenza (e di arrivo) di una rappresentazione più vasta, come se il modesto teatro di legno del Seicento, rimodellato con realismo, si dilatasse a tutta la società del Quattrocento narrata dal dramma, alla sua cultura e ai suoi eventi storici. E qui si segue la via della stilizzazione per restituire, attraverso l'uso di un colore sapiente e di fondali dipinti a imitazione di pitture, illustrazioni e tappezzerie d'epoca, una civiltà «cortese» al tramonto e investita dalla guerra.
Il 25 ottobre 1415 si scontrarono a Azincourt 60.000 francesi e 12.000 inglesi. Questi ultimi vinsero grazie ai loro arcieri che, ottimamente disposti al riparo di una geniale palizzata, riuscirono a infliggere perdite decisive alla cavalleria nemica che assaltava senza protezione. Per la lunga sequenza sul campo di battaglia Olivier tenne presente la battaglia sul ghiaccio di Ejzenstejn in Aleksandr Nevskij, film che d'altronde era nato, nel 1938, dalle stesse esigenze patriottiche. Il cineasta sovietico «profetizzava» l'attacco tedesco, di fronte al quale si trovava ora il collega inglese.
Il successo artistico dell'impresa, superiore a ogni previsione, spalancò al suo autore, che in precedenza non aveva mai impugnato una cinepresa e che dava in Enrico V una folgorante quanto magistrale «opera prima», un compito splendido e a lui, appassionato attore scespiriano, quanto mai gradito: quello del «traduttore» per così dire «ufficiale» di Shakespeare sullo schermo. Così nacque la Trilogia. Un Amleto in bianco e nero fu, nel 1948, il secondo atto. Un Riccardo III nuovamente a colori fu, a distanza di tempo (1956), il terzo e ultimo. Sì, perché nonostante i premi, che piovvero su Amleto ancor più copiosi che sul primo film, nonostante la stima critica che in tutto il mondo accolse il trittico, esso non ottenne complessivamente un riscontro di pubblico e quindi un risultato economico in grado di coprire le spese e di permettere al regista-attore di proseguire l'impegno affrontando, con lo stesso tipo di cinema interpretativo e creativo di cui si era dimostrato all'altezza, quei testi scespiriani ancor più importanti, come Macbeth, Otello e Re Lear, i quali già figuravano tra i suoi capolavori di protagonista teatrale.
Con Riccardo III si ritorna al colore e quasi alla felicità artistica di Enrico V. Ma è soprattutto come attore che Olivier, già illustratosi nel personaggio all'Old Vic oltre dieci anni prima, si supera. Doppiezza, mostruosità, nequizia, ma anche ironia e intelligente perfidia del duca di Gloucester emergono dal trucco, dalla camminata, dalla voce chioccia di un interprete al massimo del suo splendore. Riccardo ne esce insieme ripugnante e affascinante; e sul campo di battaglia di Bosworth, trafitto come Giulio Cesare da decine di colpi, muore contraendosi al suolo come uno scorpione, ma muore da soldato.
Dal punto di vista della messinscena, Olivier aveva il compito di rischiarare il testo, già complicato all'epoca sua con quella serie infinita di delitti e con quei labirinti dinastici e nobiliari, e nel contempo di variare un tema ch'era poi sempre lo stesso: l'ascesa al potere attraverso la malvagità allo stato puro. Di uno dei drammi meno riusciti di Shakespeare, e tuttavia costantemente popolare per via di quel protagonista, egli trae tutto il possibile, con alcune soluzioni di regia davvero ingegnose.
Il lungo monologo iniziale con cui Riccardo interamente si presenta confidando alla cinepresa in primissimi piani quasi televisivi, il suo altrimenti inconfessabile progetto di sterminio, ha il merito di sfoltire e semplificare la storia. Il fosco eroe per il momento è lontano dalla stanza del trono cui spietatamente ambisce: il centro dei suoi crimini viene inquadrato a distanza attraverso le gotiche finestre del palazzo. Questa «distanziazione», ottenuta anche dai colori squillanti degli esterni in contrasto coi neri angoli in cui si raggomitola il mostro, risulta essenziale per quel distacco ironico che, solo, poteva farci seguire imo in fondo le gesta di un personaggio così obbrobrioso.
Il terzo film, che alterna perversità sottile a preziosa plasticità, non era certo fatto per risollevare le sorti della trilogia, il cui destino è segnato nel 1956 senza speranza di proseguimenti, almeno in cinema. L'Otello del 1965, infatti, non è che una registrazione, e nemmeno ben riuscita, dello spettacolo teatrale. Sarà invece la televisione - ma bisognerà aspettare parecchio - a darci gli ultimi Shakespeare di Laurence Olivier: nel 1973 un Mercante di Venezia e nel 1983 un Re Lear tutt'altro che indegni, ma giunti certamente troppo in ritardo sulla straordinaria stagione della Trilogia. Dove il cinema non si era posto al servizio del teatro - come avverrà, in fondo, per i due Cechov del '63 (Zio Vania) e del '70 (Tre sorelle) - ma aveva affrontato con i propri mezzi e le proprie invenzioni l'universo scespiriano ed era stato in grado di «tradurlo» sì, ma insieme di riproporlo in modo nuovo, con tutti i rischi e tutte le soddisfazioni che ciò poteva comportare. Ed è in quest'impresa che sir Laurence ha legato il suo nome anche alla storia del cinema.
Riccardo III fu indubbiamente il vertice della sua arte interpretativa. Deforme, sciancato, con un braccio rattrappito e tre sole dita nella mano, tre dita che spaventosamente sigillano il momento dei trionfo. Piegato, nasuto, dalle labbra sottili e crudeli, con una gobba opprimente e un corpo carico di veleni sostenuto da due stecchi di gambe. Ecco l'uomo. Eppure la bellissima Lady Anne (Claire Bloorn) si lascia sedurre da lui sul cadavere ancor caldo del marito, che quel demonio ha appena fatto ammazzare.
Non c'era più memoria del fascinoso divo che Hollywood, anzi Wyler avevano voluto ancora per Gli occhi che non sorrisero (1952) dal romanzo Carrie di Greiser; e che in Inghilterra, per la prima regia cinematografica di Peter Brook, ere stato Il masnadiero (1953) dalla settecentesca Opera dei mendicanti di John Gay. Ormai i problemi del trucco, della deformazione lo assorbivano tutto. Si presentò in divisa e monocolo in un film da lui diretto e coprodotto, Il principe e la ballerina (1957), tratto da una commedia stile Vedova allegra di Terence Rattigan già interpretata sulle scene quattro anni prima con Vivien Leigh, e che non aggiunge molto alla sua gloria, né a quella di Marilyn Monroe. Quindi si avvicinò agli «arrabbiati» buttandosi - prima in teatro (The entertainer, 1958) e poi in cinema (Gli sfasati, 1960) - nella compiaciuta caratterizzazione di un personaggio che John Osborne gli aveva cucito addosso: Archie Rice, il suo personale Calvero senza dramma e senza grandezza, l'attorucolo fallito del vaudeville di provincia che sopravvive di espedienti senza poter nascondere, anzitutto a se stesso, l'abissale vacuità della propria esistenza. Scrisse la rivista «Time» quando l'attore si esibì a Broadway: «L'Archie di Olivier e un capolavoro di manierismo: egli muove il suo corpo come quello di una iena, con una mezza gobba sul collo e le gambe trascinate dietro senza coordinazione. Il suo sorriso è sgranato, appariscente, privo di significato, le sue mani sono furtive, inquiete, alla ricerca di pruriti; i suoi occhi sono mobilissimi, vuoti, morti».
Il 1960 è l'anno in cui Laurence Olivier compie il passaggio da protagonista a caratterista, o meglio diventa «un caratterista con la faccia da protagonista», come disse di lui Peter Ustinov, impiegato nel ruolo del mercante di gladiatori, vedendolo recitare in Spartacus di Kubrick. Era il patrizio Crasso, una parte che lo sceneggiatore Dalton Trumbo (uno dei «Dieci di Hollywood» il quale firmava per la prima volta dopo otto anni di «lista nera») aveva opportunamente sviluppata rispetto al romanzo di Howard Fast per giustificare la presenza di tanto attore. «Ha una fissazione per i nasi», proseguiva Ustinov, «e cerca di immaginare quello che si addice al suo personaggio». Ne scelse uno massiccio e gessoso, presumibilmente romano; ma il suo Crasso è pervaso dalla stessa nota esistenziale di Archie Rice. Omosessuale raffinato e crudele, non cela un disinteresse totale per la rivolta dei gladiatori, per il destino della propria classe, per la repubblica; ed è più cupo nel giorno del trionfo, di quanto lo sarebbe in quello dell'eventuale disfatta.
Avvezzo alle altezze e alle profondità scespiriane, non era troppo facile trovargli in cinema personaggi altrettanto ambigui e complessi. D'altra parte, come altri baronetti del teatro quali Gielgud o Guinness, anche Olivier, ormai onusto di fama, accettava qualsiasi offerta cinematografica purché munifica e, con l'andar del tempo, non eccessivamente faticosa. E non è nemmeno il caso di citare i troppi titoli nei quali il suo nome fu coinvolto. La sua partecipazione divenne sempre più di routine, anche se ogni tanto il vecchio leone tirava fuori la zampata, come gli accadde sul piano del dramma e in coppia con Michael Caine nel cinico film di Mankiewicz Gli insospettabili (1973), e sul piano della commedia, in coppia con Katharine Hepburn, nell'amabile telefilm di Cukor Amore tra le rovine (1975). Ma senza sorpresa lo vedemmo anche, egualmente «disimpegnato» e quasi divertito, come torturatore nazista (Il maratoneta, 1976) e come ebreo perseguitato (I ragazzi venuti dal Brasile, 1978). Era quasi sceso al livello di un Richard Burton, che lo stesso anno fece, press'a poco allo stesso modo, il comandante Tito in un film jugoslavo e il criminale Kappler in un film italiano.
Tuttavia la televisione diede una mano anche all'autore della Trilogia. Abbiamo giù ricordato Il mercante di Venezia del '73 e il Re Lear dell'83, che può considerarsi il suo testamento di attore. Ma non gli consentì soltanto le ultime interpretazioni scespiriane che, per gli acciacchi dell'età, non poteva più sostenere in teatro. Gli permise anche di misurarsi con alcuni notevoli testi di scrittori contemporanei inglesi. È il terzetto di telefilm - La collezione, Viaggio intorno a mio padre, Torre d'ebano - che Rai Tre presentò meritoriamente nel 1985. Insieme c'era pure una lunga intervista televisiva, mandata in onda in due puntate, in cui il re della scena si confessava ancor meglio che nel suo libro di memorie.
Ne usciva la sua devozione al palcoscenico, come attore, come regista e come organizzatore. Ma anche il rispetto per il cinema, quando gli fu dato di fare ciò che sentiva. Era il vibrante bilancio di sessant'anni di lavoro, il resoconto leale di una vita tormentata e felice, come quella di un comune mortale.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006