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Steve McQueen, una mostra a Milano e due film su MYmovies ONE

Protagonista di una Mostra personale all’Hangar del capoluogo lombardo, il regista è ora presente su MYmovies ONE con due dei suoi lavori più apprezzati, Shame e 12 anni schiavo. ISCRIVITI A MYMOVIES ONE | GUARDA I FILM »
di Rossella Farinotti

Steve McQueen (II) (Steven Rodney McQueen) (55 anni) 9 ottobre 1969, Londra (Gran Bretagna) - Bilancia.
lunedì 2 maggio 2022 - mymoviesone

Quando David W. Griffith, nel 1915, realizzò Nascita di una nazione, probabilmente non avrebbe mai pensato che, cento anni dopo, sarebbe stato fonte di ispirazione - per un capovolgimento della sua opera - di un regista inglese che lavora su temi razziali. Ma la storia del cinema e quella dell’arte visiva riservano sorprese.

Steve McQueen (Londra, 1969) con le sue opere filmiche è riuscito a inserirsi in un interstizio particolare: quel limbo tra cinema e arte che lo ha portato a lavorare in entrambi i campi ad altissimi livelli.

Il regista inglese inizia a girare i suoi primi film in 8mm negli anni Novanta, frequentando la Chelsea School of Art, la Goldsmiths di Londra - l’accademia da cui sono usciti talenti come Damien Hirst - e successivamente, nel 1993, la NYU Tisch School americana. La formazione avviene in campo artistico, le accademie restituiscono a McQueen un bagaglio culturale che lo porta a sviluppare l’urgenza di sperimentare e di creare immagini in movimento attraverso il mezzo cinematografico.

Il suo primo film - considerato dalla critica “neorealista”  e ispirato al cinema underground americano degli anni settanta - è Exodus (1992/97). Il film ha la breve durata di 65 secondi e ritrae due uomini afroamericani, vestiti da un elegante cappotto e cappello, che attraversano la strada con una pianta tra le braccia. McQueen li segue di spalle: vuole mostrare la scena dal suo punto di visione, nella prospettiva di un passante qualunque. Dunque la matrice neorealista - già da anni superata dal cinema - gli fa da spunto per poi, negli anni, sviluppare la personale visione e azione che lo ha portato a essere presente in una mostra museale, all’interno di uno degli spazi più importanti, sperimentatori e attenti in Italia, l’Hangar Bicocca.

Entrando nel grande spazio delle Navate - decostruito e liberato qualche anno fa dal curatore e direttore dello spazio di Pirelli Vicente Todolì - l’impatto è forte e spiazzante. Non c’è più il corpo accovacciato di Maurizio Cattelan realizzato in marmo bianco di Carrara; non ci sono le luci di Carsten Höller, o le installazioni di Philippe Parreno, ma c’è un grande schermo sospeso in cui lo spettatore coglie la figura della Statua della Libertà, il simbolo del raggiungimento del sogno americano, in Staten Island. Anche la macchina da presa di McQueen è sospesa, il regista è all’interno di un elicottero di cui sentiamo il rumore per tutto lo spazio, gira intorno al monumento, cogliendone dettagli che lo spettatore non avrebbe mai notato. L’opera, Static (2009), punta lo sguardo su un simbolo che oggi è corroso dal tempo: il metallo della statua è ossidato, lo si vede dalle linee del volto e dagli occhi coperti. Una chiara indicazione di un sistema che non funziona più? O che non ha mai, realmente, portato nulla di buono?


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In foto il regista inglese Steve McQueen.


Steve McQueen, attraverso la sua pratica artistica, punta il dito su diverse criticità, svoltando quell’atto del riprendere la realtà in tematiche toccanti e attuali, spesso legate al suo background culturale, alle sue origini caraibiche che gli hanno fatto osservare le grandi differenze razziali ancora attuali e al rapporto con l’altro, attraverso uno sguardo forte e toccante sulla condizione umana.

A McQueen si può dare atto di aver portato l’immagine in movimento - sia in ambiti più sperimentali e di nicchia come gallerie d’arte e musei, sia sul grande schermo - a raccontare temi che, negli anni 2000, erano nuovi e tabù: un certo tipo di narrazione sul corpo e i suoi dettagli - “Cold Breath” (1999) o “Charlotte” (2004), entrambi in mostra all’Hangar -; il New Queer Cinema; l’atto politico visto sempre attraverso il corpo umano, come in Hunger (2008), il suo primo lungometraggio in cui il regista documenta l’appassimento fisico di Bobby Sands, morto per uno sciopero della fame nella prigione di Maze. Questo film gli fa vincere la Caméra d’Or a Cannes.

Ma non è certo l’unico premio: McQueen si aggiudica infatti l’Oscar nel 2013 con 12 anni schiavo (12 years slave), miglior film. Due anni prima era stato acclamato dal grande pubblico con Shame (2011). Entrambi questi film sono ora disponibili in streaming su MYmovies ONE.

 

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Ecco perché è emozionante osservare e assorbire questo percorso all’interno del museo milanese. Un tragitto che inizia con il film sulla Statua della Libertà - lo avevo visto al Moma di NY diversi anni fa, dunque ha percorso l’oceano dagli Stati Uniti a Milano -, si addentra nel corpo umano per poi terminare con un’opera nuova, realizzata appositamente per la mostra milanese e l’Hangar, Sunshine State (2022), che restituisce il titolo della mostra.


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Steve McQueen sul set di 12 anni schiavo.


Qui il regista riprende lo storico film a cui si attribuisce la nascita del sonoro, The jazz singer (1927) con Al Jolson, che racconta l’ascesa di un cantante bianco, di origini ebraiche, nella New York dei primi del novecento. McQueen vira il film celando volti e invertendo il bianco e nero della pellicola originale. I personaggi sembrano disegnati, surreali e sono posti in una installazione a doppio schermo.

Perché il display e l’installazione visiva sono importanti per McQueen quanto la narrazione. All’esterno di Hangar, posto proprio sulla facciata interna della grande struttura, è visibile infatti uno schermo dove un film è fruibile giorno e notte. Dal neorealismo di Charles Burnett fino alle sperimentazioni installative da biennale di Venezia (a cui McQueen ha partecipato nel 2009 e 2015), l’esperienza in Hangar è davvero immersiva.


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