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Le sorelle Macaluso, una poesia meridionale dal linguaggio arioso, potente, flagrante

Non temendo di volare alto, Emma Dante staglia su cielo e terra immagini potenti, incorniciate nel racconto con giustezza e sensibilità. Presentato a Venezia 77 e ora al cinema.
di Roy Menarini

Le sorelle Macaluso

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venerdì 11 settembre 2020 - Focus

Se qualcuno aveva pregiudizi sul rischio di “teatro filmato” per la trasposizione di "Le sorelle Macaluso" dalla scena al film da parte di Emma Dante, rimarrà molto stupito dalla versione cinematografica. Non solo l’autrice ha trasformato la dinamica scenica del dramma rappresentato nel 2014 – a suo modo assai movimentato, per quanto costretto allo spazio circoscritto del palco – in un linguaggio arioso, potente e flagrante, ma ha operato con sottigliezza sul testo pre-esistente. Il gruppo delle sette sorelle della pièce, raffigurato tutto insieme e alle prese con segmenti centrifughi tra ricordi e rimpianti, a metà tra la vita e la morte, sospeso tra totentanz e commedia nostalgica, qui diviene un racconto di destini di cinque donne tra la gioventù e la maturità.

Nettamente separato in momenti temporali diversi, spicchi di una storia palermitana, Le sorelle Macaluso su grande schermo, più che una meditazione sulla simultaneità memoriale dell’aldilà rispetto all’aldiquà, è una riflessione sull’esistenza e i suoi accidenti,  in rapporto corporeo, quasi carnale, con gli oggetti.


Rispetto a Via Castellana Bandiera, Emma Dante sembra padroneggiare con maggiore maestria le forme cinematografiche, e sa come affidarsi al linguaggio e alle immagini per comunicare non verbalmente questa sorta di “permanenza” dei ricordi negli oggetti e viceversa.

Sono frequenti le sequenze nelle quali i personaggi abbandonano la stanza o lo spazio dell’inquadratura, e Dante insiste invece nel rimanere lì, nel vuoto, a osservare pareti, quadri, disegni, giocattoli, cianfrusaglie, oggetti che potrebbero da un momento all’altro prendere vita e mettersi a chiacchierare come in un Toy Story folclorico d’arte povera.

Se la prima parte del film è raggiante, legata all’estate, alla luce, allo spazio esterno, alla gioventù nella sua vitalità più sincera (era un po’ di tempo che nel cinema italiano non si girava una scena semplice e al tempo stesso commovente come la camminata delle ragazze consacrata dalla musica di Fabrizio De André e dalla voce di Franco Battiato), la seconda metà è claustrofobica e mortuaria. Le sorelle Macaluso vengono via via decimate dalla vita, ma ricordi e talvolta fantasmi restano.

Qualcuno parlerà di eccessi simbolici (i colombi, i piatti rotti, il sesso e la morte), ma ecco che Le sorelle Macaluso svela uno dei problemi della critica cinematografica. Il tema non è mai la visione in sé, è come la si esplora da un punto di vista cinematografico ed estetico. In questo senso Emma Dante mostra di giocare contemporaneamente per aggiunta e per sottrazione. Non temendo di volare alto (chissà perché in Italia bisogna sempre volare basso e raschiare il reale), si permette di stagliare su cielo e terra immagini potenti, incorniciate nel racconto con giustezza e sensibilità, oltre che con grande attenzione formale (il lavoro sugli interni della casa è eccellente, dal punto di vista spaziale, luministico e scenografico). Altre volte, invece, Dante toglie, taglia, rinuncia: ed è allo spettatore che si chiede di riempire i vuoti temporali, riconoscere le sorelle invecchiate, attivare l’intelligenza emotiva della quarta parete; in questo caso la regista ha soprattutto bisogno dei corpi, e meno della natura, del mare, del sole, dei paesaggi.

In questa – che è in fondo la storia di una casa e di un albero genealogico segnato più da dolori che da gioie, da donne più che da uomini, ridotti a portatori di figliolanza o di eros, e poco altro – la dimensione attoriale è indispensabile. E qui Emma Dante gioca in casa, in tutti i sensi, perché proprio sul corpo e la recitazione ha ottenuto l’incarnazione più completa della sua drammaturgia. È nel contesto del ripiegamento esistenziale che torna la dimensione teatrale, nella sua accezione più arricchente (per il cinema, s’intende), cioè quella di lavorare a margine del naturalismo interpretativo – i dialetti, le inflessioni, la geografia dei volti permessa dai primi piani – per poi trascolorare via via nel simbolico man mano che l’età avanza e i ricordi si mangiano il presente.

La bara e il cielo chiudono questa poesia meridionale, ancora una volta il territorio più prodigo e fertile per il cinema italiano contemporaneo e i suoi autori meno prevedibili.


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