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Pasolini: passione, dolore e destino

Un uomo, un intellettuale, un artista che in questa epoca avrebbe molto da dire. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti


domenica 8 novembre 2015 - Focus

Nel mio intervento della settimana scorsa citavo, come modelli di formazione delle generazioni del Novecento, oltre ai classici scolastici delle epoche, gli americani, i francesi, i russi, gli inglesi e altri "da Hemingway a Proust, Kafka, Mann, Joyce, Bulgakov, Pavese e molti altri certo". Nel quadro solo italiano, in una sintesi di getto, lo sottolineo, magari arbitraria dico: Pavese e Moravia, Lampedusa e i contemporanei Eco, Fo, Alberoni. E naturalmente Pier Paolo Pasolini.
Il promemoria di questi giorni ce lo restituisce in una prospettiva abbastanza lontana per poterne avere un quadro preciso. E la prima percezione è quella della nostalgia. Un uomo, un intellettuale, un artista come lui, in questa epoca avrebbe molto da dire, ancora di più. L'avremmo tutte le sere ospite nei talk. Arrabbiato, molto. Avrebbe capito tutto prima e in maggiore profondità e si sarebbe espresso con onestà ed efficacia maggiore rispetto a coloro che ci annoiano quotidianamente dal piccolo schermo.
Rispetto ai suoi "colleghi" Pasolini possedeva un'energia anarchica che rimane un unicum. Spaziava dovunque e si poneva sempre come antagonista appassionato e traumatizzato dalle trasformazioni della società e della cultura, nel quadro di un'attitudine di sinistra e antiborghese. Ma, ribadisco, anarchica. La sua ricerca era uno sforzo continuo di coniugazione di opposti: il marxismo con la spiritualità cristiana, la società prima del capitalismo con la violenza sociale dell'Occidente industrializzato. Era una ricerca dolorosa, quasi mortale. E infatti, è opinione (quasi) comune che alla fine, quella sua morte fosse un compimento cercato. Io non faccio parte di quell'opinione.
Il cinema: ritengo che sia stata, per l'autore, una derivazione della scrittura. I suoi temi abituali vengono rappresentati dalla disciplina cinema, dunque l'immagine, la suggestione, la poesia, la musica e la "pittura". Un supporto forte e utile. Il percorso cinematografico tuttavia non presenta i valori profondi della scrittura: si disperde per le troppe regole da accordare. Le fasi sono molto diverse. Quella del proletariato, con modelli come Accattone e poi le parabole, magari con umorismo, come Uccellacci e uccellini. La fase dei classici teatrali Edipo, Orestiade e Medea, con una lettura ultrapersonale sfuocata rispetto a testi che fanno parte della radice della cultura occidentale. La fase cosiddetta dell'ideologia della vita (Decameron, Canterbury, Le mille e una notte). Dove il regista tocca il cinema per il cinema, più pittura che scrittura. A parer mio la sua stagione migliore. E poi il "finale", Salò e le 120 giornate di Sodoma del 1975, anno della morte. Un film allora discusso e oggi riproposto, nelle sale, accompagnato dalle 5 stelle, il giudizio più alto. In realtà non vale quel numero. È l'opera dove l'autore aderisce fino in fondo alla sua attitudine dolente, magari recondita e senza freni. Una parabola che ha accompagnato altri autori, accreditati, ormai nella storia, decisi a misurarsi solo con se stessi, sicuri di poter raccontare tutto, anche un recondito estremo e superfluo. Penso a un Tarantino o un Almodovar. Ero un ragazzo, non ho mai conosciuto Pasolini. Ma l'ho incrociato, due anni fa, quando andai a Matera a girare il film "Itinerari del cinema: Basilicata." Matera, è notorio, ha ospitato due film su Gesù, assolutamente opposti per tutto, estetica, budget, contenuti, mistica, divi e antidivi: Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini, e La passione, di Gibson. E anche i ricordi che i due artisti hanno lasciato laggiù sono opposti. Gibson era invasivo, un ciclone che di fatto occupò Matera per mesi, creando problemi seri con la sua esuberanza. Però da quell'anno, il 2004, il turismo per i "sassi" è aumentato in maniera esponenziale. Quelli che ricordano Pasolini, era il 1964, lo descrivono gentile e sottotono. Artisti opposti per opere opposte, appunto. Il "Vangelo" è il film che più identifica Pasolini. Anche quello non fu un titolo tranquillo. Molti furono i detrattori che accusarono l'autore di aver fatto un'opera troppo a sua immagine e somiglianza. Tanto da dare a sua madre, certo molto lontana dall'iconografia classica, il ruolo di Maria. Fra i meno entusiasti ci fu il critico francese George Sadoul, uno che contava, molto, che scriveva. "... raccontato sullo sfondo dei poveri paesi calabresi con un Cristo duro e polemico... il film è tuttavia ibrido e insoddisfacente, per la sua visione generale, mescolanza di marxismo e cattolicesimo interpretati in modo del tutto pasoliniano". Ecco, "modo pasoliniano": il modo di "Pasolini del cinema" diverso da quello della scrittura. Lo dico con una metafora semplice: un musicista dotato nella sua genetica del dono delle tastiere, certo può imparare il violino, ma non lo suonerà come il pianoforte.

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