Mi è capitato di vedere per la prima volta solo di recente Allonsanfàn di Paolo e Vittorio Taviani, del 1974. Così i due registi ne parlano nel libro "Il cinema italiano d'oggi: 1970-84" di Fofi e Faldini (Mondadori): «Abbiamo usato la storia per parlare del presente. Noi abbiamo sempre fatto così. Quando in una storia del passato trovavamo qualcosa di affine a certi stati d'animo che vivevamo, allora prendevamo quel periodo storico scomponendolo, ricomponendolo, facendo un'opera di sincretismo storico e non rispettando la storia. Perché se un professore analizzasse Allonsanfàn, direbbe che è tutta una follia...». Poche righe per una complessa e articolata dichiarazione di poetica. La storia al cinema (ma vale per ogni suo processo di narrazione) si rispetta ma non è necessario esserle fedele alla lettera. In questo i fratelli Taviani sono stati maestri, sia affrontando affreschi epocali come la restaurazione post-giacobina di Allonsanfàn, sia partendo da una storia apparentemente più marginale come quella di San Michele aveva un gallo (1972), dove il tentativo rivoluzionario è rivolto al sovvertimento dello status quo di un piccolo paese umbro. In questo secondo caso il punto di partenza è letterario (il racconto "Il divino e l'umano" di Tolstoj), altra consuetudine dei due cineasti toscani.
Sintesi di questo lavoro sulla storia è La notte di San Lorenzo (1982), per molti il loro capolavoro, ricostruzione di una pagina nerissima della guerra di Resistenza (la cosiddetta strage del Duomo di San Miniato, luogo natale dei due registi). Nel film il paese si chiama San Martino, e al centro della scena c'è la fuga di civili dalla rappresaglia nazista e fascista. Il fatto storico, peraltro inconsapevolmente falsato (si è scoperto solo anni dopo che la strage fu conseguenza di una bomba erroneamente lanciata dagli americani), è filtrato attraverso esperienze dirette degli autori e dei loro familiari, che quindi ricreano non tanto un affresco fedele quanto lo spirito di un tempo a loro noto, tra ricordo personale e memoria collettiva. Fino a un certo punto, il cinema dei Taviani ha raccontato personaggi dall'alta idealità, la cui lotta, anche solitaria e destinata alla sconfitta come nel caso dell'anarchico Giulio Brogi di San Michele aveva un gallo, è comunque una "spinta in avanti" rispetto alla storia e al suo corso.
Con il nuovo film Maraviglioso Boccaccio, nelle sale da giovedì 26 febbraio, accade qualcosa di diverso, che vale forse la pena sottolineare. L'origine letteraria è chiara fin dal titolo, il fatto storico di partenza è invece l'epidemia di peste che infuriò a Firenze nel 1348. Per sfuggire al contagio dieci persone, uomini e donne mediamente giovani, si nascondono in un casolare in campagna e si raccontano le novelle boccaccesche, facendole proprie, un po' per celia e un po' per non morire. La discontinuità rispetto al protagonismo "propositivo" tipico dei Taviani fin dai tempi dei Sovversivi (1967) sta nel fatto che qui i potenziali resistenti sono tali passivamente, "cedono" all'assedio e invece di lottare per il sole di un avvenire aspettano che passi la nottata. Non si tratta di una nota critica, né di un rilievo ideologico (per carità): solo di una constatazione. Due cineasti di grande esperienza e nel pieno di una seconda giovinezza creativa (dopo l'Orso d'oro berlinese di Cesare deve morire nel 2012) pensano che oggi, in Italia, vada raccontata (o si possa solo raccontare) questa storia, e in questo modo, non più le utopie attive del passato. Meditate, gente.