L'aspettativa degli stranieri sul nostro cinema e l'esportabilità dell'immaginario italiano.
di Dario Zonta
Che vinca o non vinca, che venga accolto bene o male, che sia selezionato o meno, il cinema italiano, quando è a un festival, si mette sempre al centro dell'attenzione, cercando in questo modo di recuperare una rilevanza internazionale sempre più modesta, a causa non solo della qualità alterna dei film, ma anche della scarsità del finanziamento pubblico destinato al settore che rende il cinema italiano sempre meno competitivo. Per inciso i francesi, che a Cannes sono sbarcati in Concorso con una valanga di film (Concorso che alla fine hanno vinto con Kechiche), per non contare le co-produzioni (è molto difficile accedere alle sezioni competitive della Cannes se non c'è comunque un pizzico di Francia nel progetto produttivo), investono nel cinema 10 volte di più di quanto fa l'Italia (400 circa milioni contro 40).
La polemica di quest'anno si è concentrata sull'unico film italiano selezionato in Concorso, La grande bellezza di Paolo Sorrentino e si è consumata all'interno del panorama mediatico nostrano con poca e nessuna incidenza rispetto a quello internazionale. L'accusa ha riguardato quella parte di critica nostrana che ha accolto tiepidamente, e non con assoluto entusiasmo, il film di Sorrentino, a fronte dell'accoglienza eccitata, seppur con qualche eccezione, come "Cahiers du Cinéma" e "Libération", della stampa internazionale. Sarebbe interessante, se non fosse incredibilmente noioso, rileggere le critiche per scoprire che velatissimi dubbi, portati talvolta con insicure argomentazioni, sono stati scambiati come protervi affondi. La critica italiana è andata in ordine sparso, tutto qui, di fronte a un film molto complesso, non solo perché intende fare un ritratto seppur feroce di un tassello della società italiana, ma anche perché ambisce di parlare della vita, anzi della bellezza della vita.
La risposta alla mancata unanime adesione della critica si è tutta spesa su una sola argomentazione: gli stranieri hanno apprezzato il film, loro lo hanno capito di più.
Ora, abbandonando per un attimo la stretta polemica e allargando lo sguardo, sarebbe utile chiedersi quale è l'aspettativa che gli stranieri hanno del nostro cinema e quale è l'immaginario italiano più esportabile.
L'incidenza del cinema italiano all'estero è risibile. Molto pochi sono i film che hanno una vera distribuzione internazionale, pochissime - fino a ieri - le co-produzioni. I registi che vantano un nome fuori dai nostri confini si contano sulla punta delle dita e il cinema di cui sono portatori talvolta caratterizza elementi del costume italiano secondo un'aspettativa generica e standardizzata. I premi Oscar vinti dall'Italia sono remoti (Tornatore, Salvatores, Benigni), da anni un film italiano non entra nella cinquina (nonostante le commissioni si dannino per setacciare la nostra produzione in cerca di un film con gli standard giusti), e un regista italiano per fare un film competitivo sul piano internazionale deve sfornare un prodotto non italiano, come ha dimostrato il caso dell'ultimo fortunato film di Tornatore.
Il cinema italiano che uno straniero s'aspetta di vedere, anche per una sorta di pigrizia mentale, deve corrispondere all'idea che questi s'è fatto dell'Italia contemporanea: bella e perduta! Paradossalmente, un esempio perfetto del Bel Paese non è arrivato da film nostrani, ma da film stranieri come la commedia romantica di Susanne Bier Love is All You Need, gradevole affresco dello stereotipo del Sud tra mandolini, spaghetti, sole e aranceti, oppure, l'episodio romano di Mangia prega ama con Julia Roberts, per non citare l'insopportabile monumento al luogo comune che To Rome With Love di Woody Allen. Ecco, di questo si parla quando si ha a che fare con l'idea dell'Italia all'estero, e sono venuti direttamente da fuori per raccontarla così come se la immaginano.
Se non è bella, dunque è perduta, e l'altra faccia dell'Italia coincide con la criminalità organizzata (mafia e camorra) oppure con la politica, da anni berlusconiana, e con il corredo "cafonal" del suo immaginario decadente. Non c'è niente che inziga di più un tedesco, per fare un esempio, di vedere rappresentato in qualsiasi modo il declino morale dell'Italia berlusconiana con tutto il circo annesso di starlet, dive del piccolo schermo, affaristi cocainomani, anchorman abbronzati, imprenditori corrotti, politici erotomani...
Più o meno lo stesso carnevale orgiastico e decadente che fa capolino nella ronde della Grande Bellezza. Ora, il film di Sorrentino ha il pregio di unire in uno stesso frame vette e abissi dell'Italia contemporanea: l'estasi della bellezza monumentale romana con l'extasy delle feste barocche in terrazze d'acchito.
Ma il discorso che porta avanti Sorrentino è ben più complesso e articolato della messa in scena di una decadenza attesa e fraintesa (si fa sempre presto tra l'altro a parlar male di uno dei suoi film, per poi spesso ricredersi a distanza di tempo e di sicurezza). Però, chi ci dice che uno straniero coglierà la sottigliezza dello sguardo di Sorrentino invece di fermarsi alla superficie tra orrore "cafonal" e colpo d'occhio monumentale?
Non lo potrà dire nessuno e il rischio che le stereotipo venga replicato è molto alto. Per questo motivo, davanti a pur tenui rilievi critici sarebbe stato meglio non invocare pigramente la superiorità dello sguardo degli stranieri.
Il risvolto della medaglia tocca a tutto l'altro cinema italiano (vitale, originale e potente) che non viene riconosciuto all'estero perché non lo gratifica nelle sue aspettative stereotipate. Oppure a quel cinema indipendente, come quello di Salvo, che a Cannes viene premiato e in Italia non viene distribuito. Allora, invece di fissarsi sull'ininfluente critica cinematografica, perché non si fa un bel discorso sulla politica delle case di distribuzione italiane?