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Come inguaiammo il cinema italiano

Il made in Italy alla ribalta con un convegno sul cinema d'esportazione
di Pierpaolo Simone


lunedì 4 settembre 2006 - News

Misure di sicurezza sempre più restrittive – c'è chi è pronto a puntare sull'arrivo dei Marines – e feste sulla spiaggia che si spengono con le prime luci del mattino, la sesta giornata di un Festival pronto al giro di boa fa i conti con i primi bilanci. E se negli Stati Uniti attendono l'uscita del remake de L'ultimo bacio (The Last Kiss, scritto dal premio Oscar Paul Haggis) e Muccino si appresta a sbancare i botteghini d'oltreoceano con The Pursuit of Happyness (interpretato da Will Smith), qui a Venezia si parla di produzioni italiane in America. Che fine hanno fatto i grandi film che quarant'anni fa spopolavano nelle fumose sale americane? Dove sono i Fellini, i Rossellini, i Visconti che tanto piacevano al pubblico degli States? E perché, oggi, delle centinaia di produzioni nostrane che ogni anno consumano chilometri di pellicola, solo una o due vengono esportate? A spiegarlo è il Presidente della Biennale Davide Croff che inaugurerà nelle giornate di oggi e domani il convegno al Palazzo del Casinò: "la Mostra intende inaugurare con questa iniziativa una serie di incontri di studio e di ricerca sulle prospettive dell'audiovisivo, per approfondire gli aspetti importanti dell'attuale confronto fra le cinematografie".

Ed è di Gianluca Maria Tavarelli il primo film italiano visto nella sezione Orizzonti. Non prendere impegni stasera è una commedia in salsa “agrodolce” (con qualche ingenuità di troppo che ha causato il rumoreggiare dei critici in sala) che vede per protagonisti un nevrotico Alessandro Gassman - un impiegato ossessionato dalla sua ex - e Luca Zingaretti, tornato un anno dopo I giorni dell’abbandono per interpretare il ruolo del marito fedifrago innamorato di una giovane commessa. A completare il cast Andrea Renzi (calciatore depresso ne L’uomo in più di Paolo Sorrentino), Giorgio Tirabassi, Paola Cortellesi e un’inedita Michela Cescon nei panni di una vegetariana frustrata in cerca d’amore.

Delude anche il taiwanese Tsai Ming-liang che con I Don’t Want to Sleep Alone, proiettato in tarda serata, ha causato la fuga in massa di alcuni spettatori delusi dal grande maestro asiatico. Non un movimento di macchina, né uno zoom, per un film che ritrae la fissità, concedendo pochissimo al pubblico occidentale e costringendolo al silenzio. E se le parole sono importanti – come sosteneva un Moretti inferocito in Palombella Rossa – è proprio vero che gli ultimi ad accorgersene sono proprio i giornalisti, colti ormai da un vero e proprio delirio di onnipotenza. Mentre si fa a gara a chi la spara più grossa, fra telefonate concitate e fantomatiche interviste, c’è spazio anche per una singolare sindrome che contagia i presenti alle conferenze stampa: mai una domanda pertinente sul film o sull’attore in questione (Laura Morante confusa per ben tre volte con la zia Elsa). Aspettarsi il cosiddetto intervento “intelligente”, poi, è davvero troppo. Il suggerimento è d’obbligo: qualcuno, se vuole, può sempre arruolarsi nei Marines. In attesa – certo – che Stone si decida a girare il seguito di World Trade Center.

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