“L’impetuosa doglia entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta”. (Ariosto, Orlando Furioso, Canto XXIII). Mi sono tornati in mente questi versi dopo aver visto Il sol dell’avvenir di Moretti, regista che ho molto amato, come tanti, e di cui apprezzo moltissimo il rigore etico e intellettuale e il lasciarsi andare festoso alla musica e alla danza. Il film, a mio parere, ha degli intenti e degli sprazzi geniali, ma soffre di una ridondanza di intenzioni espressive, che si ingorgano all’uscita, come fa l’acqua di un vaso capovolto che abbia l’imboccatura stretta (l’esempio è ariostesco). C’è la storia di un film diretto da Giovanni/Nanni nel film (che a tratti evapora dal contenitore): ed è un’idea molto interessante. Come visse la base comunista (dieci anni dopo, o poco più, dalla Liberazione) l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche, per esempio nella sezione romana del Quarticciolo, che ha come segretario Silvio Orlando? Sappiamo che fu un momento lacerante. Che si crearono crepe tra CGIL e partito e nel partito. Che molti militanti uscirono dal PCI: uno per tutti, Italo Calvino. Ma la creazione artistica può modificare la realtà, e allora ecco che il finale cupo e nichilista inizialmente previsto per il film nel film viene poi cambiato: il segretario di sezione porta la protesta dei comunisti di base (che vedono in TV le drammatiche immagine dell’invasione) alle Botteghe Oscure e il finale muta di segno, con tutti insieme, appassionatamente, a sfilare contro la tirannia e in nome della libertà. Sì, ho un po’ spoilerato, ma il film non è tutto qui, in questa rivisitazione della storia fatta con i Se e allusiva ai tempi presenti. Per altro, questa scena, da Pellizza da Volpedo (al pari di quella iniziale, in cui dei militanti si fanno calare dagli argini del Tevere per dipingere una scritta sulla murata), è una delle più belle. Mi ci sono altre storie, altri fili narrativi che si intrecciano. E talora si aggrovigliano. C’è il disagio verso le nuove forme della comunicazione cinematografica (Netflix sul banco degli imputati per quanto riguarda il mezzo; l’assenza di ogni criterio etico per quanto riguarda i contenuti, troppo indulgenti in media verso i bassi istinti del pubblico: Moretti maturo batte il tasto, sempre più, sul valore educativo del cinema, pur sapendosi in solitudine). Ci sono l’inquietudine, la pignoleria, le idiosincrasie, le manie nevrotiche di Giovanni/Nanni regista e anche attore onnipresente, messe in piazza non senza autoironia. Ci sono i rimpianti per i film non fatti (il nuotatore, una storia che trovasse nella canzone italiana l’elemento agglutinante). C’è il debito di riconoscenza verso altri registi del passato (Fellini, i fratelli Taviani, Kieslowski). C’è il tema dell’amore e delle sue difficoltà nel rapporto di coppia. Giovanni è un marito e un padre pesante e soffocante (anche qui un'autorappresentazione ironica): la moglie, interpretata da Margherita Buy, aspira infatti alla separazione, con l'aiuto di un caricaturale psicologo. Amore, che poi, secondo un’interpretazione ottimistica del film, sembrerebbe la chiave per venire a capo di tanti crucci contemporanei. Secondo una lettura più pessimistica, resta l’amarezza nei confronti di ciò che storicamente non è stato, e che ci ha impedito di liberarci di certi fardelli ideologici. La mia impressione è che, per avere una scultura perfetta, Moretti avrebbe dovuto non aggiungere, ma togliere, sfilare, lasciar andare.
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