Sarà che, da qualche parte, si nasconde in me il perfido folletto del bastiàn contrario, sarà che mi insospettisco quando vedo Facebook invasa da recensioni di autore ignoto, non cercate, che esaltano Oppenheimer dichiarandolo capolavoro assoluto, giudizio che per altro rimbalza in modo virale, sta di fatto che le due cose mi inducono a essere ipercritica. Non starò certo a dimostrare che la grande fatica del regista Nolan è un flop: anzi, resto convinta che si tratti di un’opera importante e complessivamente ben riuscita, che si avvale di interpretazioni notevoli, di un sonoro potente e suggestivo, di un montaggio che garantisce ritmo continuo e favorisce la cattura emotiva dello spettatore. Ma pongo due domande. La prima: siamo così sicuri che le tre ore fossero indispensabili? La seconda: quanti nomi di scienziati o politici siamo in grado di ricordare a posteriori, associandoli a un’opinione precisa oppure a una teoria? Le risposte, a mio giudizio, confluiscono in un’impressione di questo tipo: troppa carne al fuoco e una focalizzazione incerta: se il film era sul solo personaggio di Oppenheimer, colto dal punto di vista esistenziale oltre che scientifico, altri aspetti potevano essere sfrondati o sfumati. Se invece, attraverso la figura dello scienziato, si voleva porre l’accento sul progetto Manhattan, e sulla questione sempre attuale del rapporto tra scienza e politica, bisognava allargare la visuale, per dare spazio ai contributi di tanti altri fisici, in gran parte ebrei, che, fuggiti dall’Europa, avevano cercato di portare avanti le ricerche avviate in precedenza in Germania (ma anche in Italia, in via Panisperna), allo scopo di fermare Hilter, ben consapevoli di ciò che accadeva a milioni di correligionari. Naturalmente, affrontando le difficilissime implicazioni etiche di questa scelta, non molto diverse da quelle di chi imbracciò le armi nella Resistenza. Anni fa girava una pièce teatrale ispirata a uno scritto di Michael Frayn, Copenaghen. In questa città viveva Niels Borh, premio Nobel (1922), ebreo, uno dei padri della fisica quantistica. Einstein, che dissentiva dal suo probabilismo, era già in America dal ’33. Nel settembre 1941 venne a trovarlo nella città danese Heisemberg, suo allievo, che guidava il programma nucleare militare tedesco di cui rivelò l’esistenza a Bohr. (Dopo quell'incontro la loro lunga amicizia terminò bruscamente. Bohr si unì in seguito al progetto Manhattan). Frayn immagina che in questo colloquio allievo e maestro discutano di principio di indeterminazione, ma anche delle implicazioni morali delle scelte di Heisemberg. Lo spettacolo teatrale, avvalendosi di una scena nuda, una sola lavagna, e dell'ottima interpretazione di Umberto Orsini e Giuliana Lojodice, riusciva a divulgare con chiarezza le idee, anche difficili, di quella immaginaria discussione perché aveva circoscritto i temi. Nel film invece le questioni teoriche e quelle pratiche, cioè politiche, sono tantissime, e vengono messe sul piatto con un ritmo sostenuto che cattura l’attenzione contingente, ma rende difficile la fissazione delle idee e la riflessione. Capisco che l’esempio può essere irriverente, ma la tecnica sembra quella del venditore di tappeti. Con questo non dico che le battute siano insignificanti o superficiali. Anzi, ci sarebbe bisogno di bloccare ogni tot minuti il filmato, di analizzarlo con calma, sequenza per sequenza. Operazione che può essere condotta in modo proficuo all’interno delle università e dei licei tecnico-scientifici, oltre che nei club dei cinefili. Non in una sala cinematografica. Credo, infine, che il messaggio che più facilmente viene recepito possa essere riassunto in due sentenze di una banalità estrema: la bomba atomica fa schifo. Gli americani sono cattivi. Ma concedono e incoraggiano la libertà di critica anche a chi non è americano (in questo caso inglese): il che li riscatta un poco. Il film può ambire a un Oscar per questo, ma anche, e soprattutto, per l’enorme sforzo filologico (intendo lo studio della biografia di Oppenheimer, scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin), per certe scene emozionanti sul Trinity test (la prima detonazione di un'arma nucleare) nel deserto del New Mexico, per il racconto dell’inchiesta e del processo per sospetto filocomunismo a cui fu sottoposto Oppenheimer a guerra conclusa, in pieno maccartismo.
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