di Marco Chiani
Se Fight Club fosse stato girato nell'ultimo quinquennio e non quasi vent'anni fa, Edward Norton forse non avrebbe affermato: "Una volta leggevamo pornografia. Ora leggiamo arredomania". Le possibilità che "cucinomania" avrebbe sostituito uno dei due termini, a ben pensarci, sono alquanto alte.
Il food-blogging, la critica gastronomica, ancora prima il gioco e l'esercizio culinario mai sono stati tenuti in così alta considerazione come negli ultimi tempi, è sufficiente fare un giro in rete per averne contezza.
Sintonizzarsi su un qualsiasi canale televisivo, poi, significa vedere spadellare cuochi o aspiranti tali, ancora esperti di elettronica, tennisti, ballerini e qualsiasi altra categoria professionale e umana. Chef's Table, serie di documentari Netflix dedicata ai maggiori chef del Pianeta, sceglie intelligentemente di rimanere sull'argomento, ma con una classe tutta particolare e con quella distintiva spigliatezza che il creatore David Gelb aveva già riposto in Jiro e l'arte del sushi (da vedere).
Il progetto, ambizioso e non c'è dubbio impegnativo, è rivolto sì agli esteti del fornello, ma anche a chi non sa nemmeno lessare la pasta. Perché, a partire dall'Inverno di Vivaldi che trionfeggia sui titoli di testa, ognuno dei dodici documentari che lo compongono dà una lettura del concetto di creazione in senso lato.
Sei episodi la prima stagione e altrettanti la seconda dedicati ciascuno ad uno chef di fama mondiale, ad un divo della cucina che, in maniera quasi sempre nettissima, esprime la sua visione del mondo con cipolle e pane, pasta, carne, pesce e tutto ciò che la propria terra di origine offre alla tavola.
Accade così che Chef's Table diventi anche un giro intorno al mondo, dalla Modena di Massimo Bottura alla Bueons Aires di Francis Mallmann fino a Los Angeles e Melbourne, New York e Fäviken (Svezia), le case-cucine di altrettanti cuochi passati in rassegna nella prima serie.
Tra cucinare e preparare da mangiare, insegna Chef's Table, passa un mare. Chi già lo sapesse resterà comunque colpito dall'ostinazione nel cercare un modo differente di vivere la propria professione.
La seconda stagione della serie, ora disponibile, espande lo sguardo e continua a svelare il mondo, la cui storia passa di certo anche per il cibo, attraverso questa particolare "cucina di idee" che ora è di casa a São Paulo (Brazil), Kobarid (Slovenia), Mexico City (Messico), Bangkok (Tailandia), San Francisco e Chicago (gli Stati Uniti portano a casa quattro documentati su dodici).
La struttura degli episodi, diretti da differenti registi, non ha particolari fermi compositivi e ciascun chef-luogo ha la sua precisa angolatura: la riflessione si espande in maniera sempre libera verso nuove aree geografico-culturali, dentro a cantine e dispense, tradizioni e innovazioni, rivoluzioni anche, combattute soltanto con mestoli e padelle.
Molto curati formalmente, nessuno degli episodi ha nulla a che spartire con la secca didattica culinaria, avendo più a che fare con la filosofia che ad essa sottende, al punto che Chef's Table sta a un qualsiasi programma di cucina, anche pluri-stellato, così come l'università sta alla scuola materna.
Un po' alchimisti, un po' rockstar, tutti gli chef, a qualsiasi latitudine appartengano, sono analizzati da un punto di vista umano e professionale, del resto il risultato del lavoro, ciò che mettono sul piatto, dipende sempre dalle loro esperienze e origini.
Le abitudini e le passioni, i ricordi, le manie e le ambizioni, i fallimenti e gli ideali, le ossessioni per un ingrediente, le intuizioni per un colore, tutto è miscelato in maniera omogenea al fine di restituire il sapore di scommesse (almeno per i nomi coinvolti) vinte. Con gli occhi sui fornelli, gli spettatori possono solo sbirciare quei segreti che ogni chef vorrebbe rimanessero tali perché in magia come in cucina, si sa, prima di ogni cosa conta il silenzio degli iniziati.