Napoli velata

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la maschera e l'occhio Valutazione 3 stelle su cinque

di ninoraffa


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sabato 20 gennaio 2018

 La maschera e l’occhio. Velo e svelamento segnano e delimitano "Napoli Velata" di Ferzan Ozpetek. La prima inquadratura è l’occhio di una vertiginosa scala elicoidale: citazione di Hitchcock che rimanda al thriller psicologico, svelando una chiave ma allo stesso tempo sviando e velando.
 
Adriana – matura patologa, con qualche problema col mondo maschile, e non solo – ha una notte rovente, forse la prima della sua vita, con Andrea appena conosciuto a una festa. I due si ridanno appuntamento dopo poche ore, ma lui non si presenta. Adriana lo ritroverà sfigurato il giorno successivo sul suo tavolo anatomico: cavati gli occhi, del suo volto rimane la maschera e lei all’inizio non lo riconosce.
Questi fatti elementari mettono in moto Napoli Velata. Movente e mandanti dell’assassinio si intuiranno abbastanza presto, ma le indagini sembrano distrarsi come se la forma del noir, più dei colpevoli, voglia svelare l’intimità della protagonista, e magari altro più profondo.
 
Andrea riapparirà quasi subito ad Adriana sotto le specie del gemello Luca, e questo rapporto, presto morboso, farà emergere le morti violente dei genitori cui ha assistito da bambina. Adriana per mestiere apre, svela, i morti, ma il particolare lavoro che ha scelto finora è servito a normalizzare, mascherare, velare, quelle morti essenziali a cui non vuole tornare.
Andrea/Luca è uno dei doppi tanto cari a Ozpetek, e in questo caso fa a sua volta da doppio col padre di Adriana. Padre e amante accomunati dal destino di sangue: nel gioco dei simboli e dei rimandi, Andrea è stato ucciso per una maschera antica, e c’è il monile a forma di occhio del padre di Adriana – in un certo senso causa della sua morte – che lei dona all’amante vivo/morto, ridandogli gli occhi che gli assassini gli hanno tolto.
Nell’altro doppio centrale della storia, la madre omicida/suicida di Adriana ha lo stesso volto di lei, quasi a trasmettergli la sua imperdonata colpa prima di gettarsi nel vuoto. E lungo la stessa folle linea ereditaria si potrebbe sospettare Adriana stessa come assassina. 
 
Cast non irresistibile: Giovanna Mezzogiorno sotto se stessa, a tratti più estranea che interrogativa, Alessandro Borghi poco incisivo nel ruolo-ombra di Luca, più convincenti gli altri comprimari, sopra tutti Peppe Barra. Qualche caduta televisiva nella sceneggiatura, non sempre all’altezza della complessità del soggetto.
"Napoli Velata" è un film barocco nelle atmosfere, nella struttura ridondante e nell’esorbitante simbolismo, di cui la città partenopea è giusta coprotagonista. Le streghe che consumano il loro sabba scambiandosi la maschera sotto il Grande Occhio, i Quartieri Spagnoli, i vicoli, gli ipogei e le torri, le chiese e i palazzi, gl’interni sontuosi, la brulicante umanità di ciechi, nani, santone, veggenti e cabaliste, materializzano una storia possibile solo in poche altre città misteriche. Astratta e simbolica, ma anche carnale, l’insistenza su maschere d’amore e morte: il martoriato evanescente Cristo Velato fa da contraltare ai possenti nudi marmorei romani del Museo Archeologico, ai corpi vibranti dei due protagonisti nell’amplesso, alle fotografie nude di lei rubate da Andrea, e naturalmente alle carni livide sul tavolo anatomico.
 
Sul finale qualcosa sembra chiarirsi. Adriana incontra un altro uomo che l’aiuta a liberarsi dell’ombra di Andrea; cambia casa, lascia il lavoro, in qualche modo scopre e fa i conti con la parte rimossa di se stessa.
L’ultima scena è il doppio della rappresentazione teatrale della figliata dei femminielli in cui Adriana e Andrea si erano conosciuti; parto impossibile, simbolica venuta alla luce che il velo del sipario nasconde nel momento cruciale perché troppa verità è insopportabile.
Adriana si ritrova nella Cappella Sansevero alla commemorazione funebre dello zio, morto anche lui in circostanze poco chiare. Dinanzi al Cristo Velato intuirà le mandanti dei due delitti, scoprirà un tradimento, ma soprattutto si ritroverà tra le mani l’occhio che è stato di suo padre e poi di Andrea, a significare un nuovo finale che inghiotte tutto quello che finora è stato.  
Il rimpiattino di Ozpeteck con lo spettatore continua. L’occhio che rivela è maschera che nasconde, e viceversa. L’inatteso epilogo, più che ribaltamento o cancellazione, è un altro giro lungo la scala a spirale della verità, qualunque cosa sia. Del regista turco conosciamo la dimestichezza con le ombre: i fantasmi non solo esistono, ma i fantasmi siamo noi, di cui rimane solo un rumore di passi in un vicolo.
E forse non è lui col suo cinema, ma qualcos’altro a giocare con noi lì fuori. 

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