Anno | 2013 |
Genere | Drammatico, |
Produzione | Israele, Francia |
Durata | 84 minuti |
Regia di | Amos Gitai |
Attori | Yuval Scharf, Yussuf Abu Warda, Sarah Adler, Assi Levy, Uri Gavriel, Norman Issa Shady Srour. |
Uscita | giovedì 29 maggio 2014 |
Distribuzione | Boudu |
MYmonetro | 2,92 su 7 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 30 maggio 2014
Un inno all'amore che nasce dalla diversità.
CONSIGLIATO SÌ
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Una giovane giornalista, Yael, si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono. Ha sentito parlare di una donna ebrea che, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva sposato un arabo ed era andata a vivere lì. Yael, nella sua visita ascolta ciò che Il marito Youssef ha da raccontarle e raccoglie anche le testimonianze di parenti e conoscenti.
Amos Gitai venne a conoscenza grazie alla stampa della storia di una donna nata ad Auschwitz e poi sposatasi, nonostante molteplici ostilità, con un arabo da cui ebbe cinque figli e 25 nipoti. Si tratta di una vicenda che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista israeliano da sempre attento ad indagare i perché di una rivalità (che spesso si trasforma in odio) tra due popoli che hanno saputo convivere nel passato e potrebbero tornare a farlo. Bisognava però decidere con quale taglio raccontarla e Gitai ha deciso di portare all'estremo quello che per lui si è spesso configurato come un codice linguistico particolarmente interessante.
Gli spettatori più attenti al suo cinema ricorderanno sicuramente l'episodio del film collettivo 11 settembre 2001 in cui descriveva la concitazione presente sul teatro di un attentato e l'assoluta incapacità della giornalista inviata sul posto a comprendere cosa accadeva grazie a un piano sequenza di 11 minuti. Altri faranno invece riferimento alla lunghissima e tesissima sequenza in apertura di Free Zone tutta incentrata sulle reazioni emotive del volto di Natalie Portman. Questa volta il piano sequenza ha la durata dell'intero film che si svolge quindi in tempo reale. Sul piano simbolico la scelta estetico-narrativa è di grande valore perché avvolge ed unisce due mondi, due culture e due memorie che si vorrebbero opposte realizzando un film 'senza stacchi', senza separazioni, neppure di montaggio. Non ci sono, in questo microcosmo, quei muri che altrove istituzionalizzano la separazione. Si tratta però di una formula punitiva per il pubblico non israelo-palestinese sotto un duplice aspetto. Sul piano storico perché nei dialoghi e nelle memorie dei personaggi emergono innumerevoli elementi che fanno parte della storia socio-culturale di quei popoli ma che non tutti nel mondo hanno presenti.
C'è poi la fatica del seguire (e talvolta subire) gli inevitabili tempi morti che fanno parte della quotidianità di ognuno ma che sullo schermo e in una sala bui sembrano espandersi all'ennesima potenza. Gitai è sempre stato un regista 'in ricerca', sia sul piano storico che su quello formale. Una ricerca che, in questo caso, rischia di rivolgersi a un pubblico molto ristretto.
Esce a nove mesi da Venezia 70, "Ana Arabia" che l'israeliano Amos Gitai gira in un unico piano sequenza di 84', con il quale segue l'inchiesta di una giornalista in un'enclave di convivenza tra arabi ed ebrei di un piccolo, modesto quartiere vicino a Jaffa. Sorretto da uno sguardo "docu" e dal "pedinamento" della macchina da presa (che di fatto è l'occhio in più della giornalista), il toccante film [...] Vai alla recensione »
Un unico piano sequenza in Steadycam lungo 81 minuti, un film che prende insieme dal reportage e dal teatro per una nuova drammaturgia: si chiama speranza, umana prima ancora che geopolitica. Ma non tutto è a fuoco, non tutto è realistico, a meno di non essere Scalfari a colloquio con Papa Francesco: la giornalista protagonista intervista una famiglia allargata per un'ora e mezza senza registrare, [...] Vai alla recensione »
Un'unica sequenza di 85 minuti per raccontare la possibilità di un dialogo tra arabi ed ebrei, unire due mondi apparentemente distanti e conflittuali, rompere i confini di pregiudizio e ostilità. Come se l'unità di forma possa diventare anche una unità di sostanza. Con il suo Ana Arabia, presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia e da oggi nelle sale italiane, il regista israeliano Amos Gitai [...] Vai alla recensione »
Tutto il Medio Oriente in 81 minuti che scorrono senza stacchi, ipnotici ed emozionanti, tra i vicoli di un rione di Jaffa, vicino Tel Aviv, abitato da arabi e ebrei poveri. A farci scoprire questo luogo fuori dal tempo, un po' come certe borgate di una volta (ma col carico tragico del Medio Oriente addosso) è una giornalista che indaga su una donna appena scomparsa.
La reporter askenazita Yael entra in un quartiere di Giaffa, nell'area metropolitana di Tel Aviv, per raccogliere testimonianze su Anna, ebrea di origine polacca sopravvissuta all'olocausto che, a suo tempo, sposò un arabo sfidando pregiudizi e divieti in nome dell'amore. Le vicende della donna sono rievocate attraverso le testimonianze dei familiari e dei vicini di casa: perlopiù in forma di monologo, [...] Vai alla recensione »
L'israeliano Amos Gitai ha un pessimo biglietto da visita: è uno dei registi più presenti ai grandi festival. Dove trova giurie pronte a consegnargli qualche onorificenza. Pazienza, se poi nelle sale c'è il vuoto. La sua ultima opera (a Venezia 20l3), è imperniata su una giovane giornalista, Yale, che, al contrario del pubblico, vuole saperne di più su una certa defunta Siam Hassan.