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Prima della rivoluzione

Moonrise Kingdom e il diritto alla contestazione.
di Roy Menarini

In foto Kara Hayward e Jared Gilman, protagonisti del nuovo film di Wes Anderson, Moonrise Kingdom.
Jared Gilman - Capricorno. Interpreta Sam nel film di Wes Anderson Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore.

domenica 9 dicembre 2012 - Approfondimenti

Tutto il cinema di Wes Anderson - è banale ripeterlo - mette al centro le disfunzioni della famiglia, dai Tenenbaum a Il treno per il Darjeeling, persino quando i personaggi principali appartengono alla specie delle volpi (Fantastic Mr. Fox). Più sottile, invece, il discorso del regista sulla conquista dell'identità da parte dei singoli, specie i più giovani, di fronte alle bizzarrie di padri e madri, quasi sempre inadeguati o assenti.

Moonrise Kingdom si presenta come uno dei titoli più struggenti di Anderson, quello in cui i giochi formali e le esibizioni di sarcasmo o malinconia trovano una sensibilità imprevista nella rappresentazione della pubertà. Chi si era stupito nel vedere spuntare all'improvviso un pugno chiuso in Fantastic Mr. Fox (un gesto da ribelle socialista? Una citazione della lotta per la libertà degli afroamericani?) trova ora nel suo nuovo film una spiegazione abbastanza evidente delle idee libertarie del regista. Il film si svolge infatti nel 1965, e la fuga dei due ragazzi, che evadono da situazioni di orfanità reale o metaforica, sembra suggerire una prova generale di quel che avverrà negli anni a seguire, nell'epoca della protesta e della contestazione.
Pur citando a piene mani la cultura dei boy scout - una sorta di fusione tra gli elementi più conservatori della società statunitense e la purezza del mito della scoperta - Anderson guarda con simpatia alla ribellione ancora incosciente e spontanea dei suoi protagonisti. Moonrise Kingdom mostra insomma come, nell'universo apparentemente destoricizzato di Anderson, si muova una costante dimensione allegorica nei confronti della cultura politica statunitense. D'altra parte la generazione che merita più critiche, da sempre, nei suoi film, è quella degli ex-contestatori (complice anche la consonanza con il precedente sceneggiatore, Noah Baumbach, regista a sua volta dalle tematiche simili), adulti per caso, adolescenti mal adattati alla maturità, visti con astio - magari con accenti autobiografici - e al tempo stesso con una tenerezza impossibile da dissimulare. Questa volta, sebbene anche i genitori degli anni Sessanta abbiano i loro bei problemi, il regista sembra concedere una chance al racconto di una crescita, segnata pur sempre dall'inconsistenza (e persino dal rifiuto) della famiglia, dunque come una sorta di ciclo continuo nel quale le nuove generazioni vengono fraintese da quelle precedenti. Che tutto questo abbia dunque una rilevanza storica è evidente, e Moonrise Kingdom lo cala persino nel territorio letterario di Tom Sawyer, e sfiorando la leggenda di Davy Crockett. Infine, va detto che la consueta ricerca spaziale e cromatica del cineasta - che poco piace ai cinefili che vorrebbero da lui meno controllo registico e più pathos - appare al contrario l'ulteriore conferma formale che Anderson, anche nella messa in scena, imposta una sorta di crisi ironica tra quel che può essere dominato gerarchicamente (la tecnica e la narrazione) e quel che s'insinua tra le righe (la libertà dei personaggi e, perché no, delle interpretazioni come questa).

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