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Travolti dal solito destino

In I guardiani del destino il fato non agisce per vie oscure ma secondo un protocollo.
di Gabriele Niola

Matt Damon ed Emily Blunt in una scena del film I guardiani del destino di George Nolfi.
Matt Damon (Matthew Paige Damon) (53 anni) 8 ottobre 1970, Cambridge (Massachusetts - USA) - Bilancia. Interpreta David Norris nel film di George Nolfi I guardiani del destino.

giovedì 16 giugno 2011 - Approfondimenti

Se c’è una cosa più affascinante di credere nell’esistenza di un destino scritto per ognuno di noi è credere che questo destino possa e debba essere combattuto. Lo sa bene Hollywood nelle cui parabole eroiche è spesso presente l’idea del predestinato che non sembra essere tale, dello sconfitto dalla vita cui è offerta una seconda occasione o ancora del condannato che si batte per la propria salvezza. Finisca bene o finisca male la lotta contro il fato l’eroe sarà comunque tale, perchè avrà lottato per guadagnarsi il diritto alla felicità contro quella che è la forza più potente in assoluto per la morale calvinista.
Sta tutto qui il segreto del fascino di I guardiani del destino, nell’esporre senza veli e con perizia geek quel meccanismo che mette in pratica le regole alla base della visione di mondo di Hollywood: per tutti esiste un destino ed è nostro dovere batterci contro di esso se non coincide con i nostri sogni, le nostre aspirazioni o i nostri sentimenti. Se ci andrà bene la nostra vita avrà un lieto fine altrimenti sarà un noir.
È quindi mettendo in scena il sistema rigoroso che si cela dietro il principio alla base di Sliding Doors, quello per il quale un piccolo evento può cambiare una vita, che I guardiani del destino svela le fondamenta eroiche dell’etica anglosassone, il fatto che ogni cosa anche la più scontata vada guadagnata. E più lo sforzo è grande più la ricompensa sarà soddisfacente più l’eroe sarà tale.

Lo sguardo geek mostra anzichè nascondere
Tradendo deliberatamente gran parte del racconto di Dick da cui I guardiani del destino prende l’ambientazione e lo scenario, George Nolfi gira una parabola da cinema americano classico filtrata da uno sguardo geek contemporaneo.
Con perizia pornografica il suo film svela e sviscera tutti quei meccanismi che reggono l’universo immaginato da Dick. Lo sguardo geek arriva così alla partecipazione dello spettatore non mostrando qualcosa ma analizzandolo minuziosamente, la macchina non la guardiamo solo da fuori ma la apriamo per indagare il funzionamento del motore, al mistero si sostituisce la conoscenza. Nolfi non risponde solo a quelle domande primarie cui un film classico avrebbe puntato a rispondere come: “In che modo agisce il destino?” o “Che regole ci sono?”, ma si premura di non lasciare dubbi riguardo tutte le componenti del meccanismo: “Che succede se c’è un errore?”, “Quanto potere hanno i singoli impiegati?” “Quante vite possono essere modificate senza che sia necessario chiedere un’autorizzazione ai propri superiori?”.
E questo modo di procedere, opposto alla pervicacia anarchica del protagonista, non leva poesia anzi ne aumenta la forza, perchè più si accumula conoscenza degli ingraggi del motore più si comprende l’entità dello sforzo e la follia del gesto di riconquista sentimentale. La fredda macchina burocratica che rischia di schiacciare il sentimento è mostrata in tutta la sua inesorabile e mostruosa organizzazione che ne costistuisce la forza, un sistema così strutturato e rigoroso che solo un’idea apparentemente fallimentare può spuntarla.
Il brillante politico affossato dagli scandali ma innamorato di una ballerina che non deve frequentare per volere del “Presidente” non lotta quindi contro gli eventi ma proprio contro quelle persone che creano gli eventi. Il destino prende forma materiale e gerarchica: impiegati, direttori e meri esecutori che hanno il compito di riportare sui binari corretti le vite di ognuno quando queste si allontanano dal grande piano, creando artificiosamente piccoli ritardi, imprevisti, contrattempi e coincidenze.

Angeli con il cartellino
Nonostante l’idea moderna di messa in scena dei meccanismi che regolano il mondo (anche se inventati) non spetta certo a I guardiani del destino, nè tantomeno a Philip Dick, il merito di aver inventato la figura dell’impiegato delle sfere celesti. Il regno dei cieli ordinato come una grande azienda, diviso cioè per competenze, uffici e direttive, nonchè regolato dalle rigide regole di carriera e promozione è una metafora dell’ordine divino e del disegno intelligente tipicamente anglosassone. Non a caso è Hollywood ad aver inventato la figura dell’angelo di seconda classe in La vita è meravigliosa, il buon Clarence che per guadagnarsi le ali si fa affidare una pratica complicata: convincere un aspirante suicida a non andare fino in fondo mostrandogli come sarebbe stato e come sarà il mondo senza di lui.
Da lì in poi gli impiegati del paradiso si sono sprecati e, quando la metafora non era quella dell'esercito, era regolarmente l'ufficio. Angeli che sono poco angelici, poco infallibili, poco santi e molto umani, che svolgono il lavoro bene o male come se ne svolgono tanti altri, con tutto il corollario di insoddisfazione e desiderio di carriera degli uomini.
E come l'uomo si batte contro la burocrazia in Terra così, anche per aspirare ad una vita migliore, deve vedersela con la burocrazia celeste. Una struttura che regola tutto e che materialmente applica, diventandone allegoria pragmatica, l’idea trascendentale di disegno intelligente.
È il segreto alla base dell’idea di Il paradiso può attendere, in cui qualcosa non va come deve andare e un morto deve tornare a vivere per completare il proprio destino, o, in maniera più mistica, ciò che si nasconde dietro La leggenda di Bagger Vance, in cui un aiuto dal cielo serve a portare a compimento un destino più grande.

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