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Horror Frames: Don't Look Up e gli insoliti remake

Il cinese Fruit Chan rifà un horror del maestro giapponese Nakata.
di Rudy Salvagnini

Il regista cinese Fruit Chan in occasione della 66. edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Fruit Chan (65 anni) 15 aprile 1959, Guangzhou (Cina) - Ariete.

martedì 31 maggio 2011 - News

L’industria dei remake, come sappiamo, è sempre attiva e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Generalmente, prende un film di qualche notorietà o attrattiva e provvede a rifarlo sfruttando nuovi ambienti e nuovi effetti speciali per dargli una patina di modernità, dimenticando spesso tutto il resto. Frequentemente, i remake americani hanno all’origine dei film stranieri anche recenti o recentissimi, che così possono essere resi maggiormente fruibili per il pubblico statunitense, evidentemente poco disposto a sentir parlare straniero e poco intenzionato a leggere sottotitoli (poco disposto, ma sicuramente più disposto del pubblico nostrano, comunque). Talvolta capita che a occuparsi del remake sia lo stesso regista del film originale (basta ricordare la serie di The Grudge, diretta in Giappone e negli Usa da Takashi Shimizu, che solo recentemente si è stancato di rifare continuamente lo stesso film). In altri casi, come è capitato a Hideo Nakata per Ring 2, il regista originario subentra a quello americano per girare il sequel del remake (!). Fin qui, tutto è magari opinabile, ma coerente. Le cose si fanno più curiose quando a dirigere un remake di un film asiatico viene chiamato, forse per una presunta assonanza temperamentale, un altro regista asiatico magari di un paese del tutto diverso. È quello che è successo al cinese Fruit Chan, che ha diretto Don't Look Up, remake di un horror del giapponese Hideo Nakata: proprio lui, il “creatore” del jap-horror moderno con il primo Ring cinematografico. La trama di Don’t Look Up parte, com’è consuetudine di molti horror, da un fatto tragicamente ingiusto del passato per gettare un’ombra oscura sul presente.

La trama di Don’t Look Up
In un villaggio romeno, nel Medio Evo, una giovane zingara di nome Matya viene uccisa perché ritenuta una creatura del diavolo in seguito a un presunto patto stretto da sua mamma Chavi con un seguace del demonio, Beng. Lo spirito di Matya però rimane a perseguitare il villaggio, in attesa di reincarnarsi attraverso una precisa procedura malefica. Nel 1928, il regista ungherese Bela Olt decide di girare un film sulla vicenda, ma il film non viene mai finito e il regista scompare misteriosamente. Ai nostri giorni, il giovane regista Marcus scrive un film sulla storia di Matya: è molto preso dal progetto, ma è anche turbato per la salute di Claire, la sua ex fidanzata affetta da un tumore. Marcus si reca in Transilvania per girare il film, ma ha continue visioni: lui ritiene che siano espressioni del paranormale, mentre il suo produttore Josh pensa che dipendano da qualche turba psichica. Marcus vuole girare il film nello stesso studio dov’era stato girato il film incompleto di Olt. È uno studio vecchio e dismesso, ma Marcus non demorde. Le riprese iniziano, ma ben presto Marcus deve rendersi conto che quella del fantasma non è solo una leggenda. Le immagini perdute del film di Olt si mescolano misteriosamente e magicamente a quelle girate da Marcus e questo è solo l’inizio.

Fantasmi e fascino della specularità
Il film gioca sulla magia del cinema, sulla natura fantasmatica delle immagini proiettate sullo schermo - quelli che vediamo sullo schermo sono in fondo i “fantasmi” degli attori che hanno girato le scene - e sul fascino della specularità: Marcus guarda i riflessi filmati della vecchia pellicola, noi guardiamo lui e forse qualcuno guarda noi. Ma ci sono anche altri rimandi: Matya era stata tenuta in una soffitta in attesa del momento in cui, divenuta grande, avrebbe potuto congiungersi con Beng e dare vita a una progenie infernale. Non è difficile scorgere un legame tra questa figura predestinata e infinitamente triste e la Sadako della serie di Ring (anche se Matya resta un personaggio appena abbozzato). Certe immagini - in particolare quelle degli occhi della ragazza in primissimo piano - rafforzano questo legame e questa impressione. E del resto Nakata portò molta dell’esperienza fatta con il suo Don’t Look Up proprio in Ring.

Una regia guadagnata grazie a Dumplings
Come sempre è futile fare confronti: chiaramente il film di Nakata vince su tutta la linea, per concisione, atmosfera, ingegnosità e originalità. Fruit Chan è un regista molto valido e si è fatto notare per film drammatico-sociali di notevole sensibilità, dedicati alle problematiche di Hong Kong e in particolare alla fine dell’amministrazione britannica e alle sue conseguenze. Ma non sono certo quei film che gli hanno fatto guadagnare questa regia. Cruciale dev’essere stato Dumplings, agghiacciante variante culinaria sui ravioli cinesi che l’aveva fatto notare negli ambienti horror. Il film esiste in due versioni: quella breve è all’interno del film a episodi Three... Extremes, quella lunga è un film a sé stante. In entrambe le versioni, la storia funziona e Chan si mostra capace perfettamente di gestire tensioni e spaventi. In questo caso, invece, la cosa non gli riesce, nonostante il materiale di partenza fosse sufficientemente promettente. Solo che la sceneggiatura di Brian Cox non riesce a sviluppare i temi più interessanti - dilungandosi in chiacchiere poco significative - e solo di rado le immagini catturano l’arcana tensione potenziale della vicenda. Certe svolte e certe soluzioni, dopo decenni di abuso, suonano ormai vecchie e risapute. Anche il fascino del film nel film risente del logorio e dell’iterazione e non emerge. L’ambientazione romena inoltre non è che il pretesto per qualche frusta battuta sulla green card e per l’esibizione di malintese superiorità anglosassoni.

Il film paga la scarsa originalità
La tensione stenta a crescere e tutta la prima metà del film risulta farraginosa e lenta. Alcune immagini - benché non nuove - mantengono la loro attrattiva, ma la mancanza di originalità anche sotto il profilo visuale penalizza la riuscita del film. Solo quando, nella parte finale, la concitazione diventa parossistica e la realtà è travolta dall’irruzione prepotente del soprannaturale, Fruit Chan agguanta qualche visione genuinamente malsana: tra tutte quella del seme estirpato dal perverso portatore per essere finalmente parte, in un tripudio di mosche perlopiù digitali, della soluzione conclusiva. Il personaggio centrale, Marcus, è banale, soprattutto nell’interpretazione poco ispirata di Reshad Strik. Altrettanto poco incisiva Carmen Chaplin, nipote del grande Charlie, nella parte dell’attrice del nuovo film sulla leggenda maledetta, mentre un po’ più vivace è la partecipazione del canadese Lothaire Bluteau, nel ruolo di Grigore, il romeno che accompagna la troupe e si lancia in una puntigliosa e filologica spiegazione su Frankenstein e i suoi assistenti. Eli Roth, il regista di Hostel, si produce in un cameo nella parte del regista maledetto Bela Olt.

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