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Malavoglia, ascolta i vecchi che non ti sbagli

Il regista Pasquale Scimeca commenta la realizzazione del film.
di Nicoletta Dose

In foto i protagonisti del film di Pasquale Scimeca. Da venerdì 29 aprile al cinema.

giovedì 28 aprile 2011 - Incontri

In un paesino siciliano dove tutto accade e nulla cambia, una famiglia di pescatori si trova costretta a fare i conti con la tragedia della morte di un caro. I sacrifici di una vita intera trascorsa con dedizione a lavorare per il bene della comunità non contano e la dipartita di Bastianazzo fa impazzire la moglie e distrugge l'equilibrio tra i vari componenti della casa. È la Provvidenza, una barca che affonda più volte, a decidere della vita dei protagonisti dei Malavoglia; il caso fa subire ai poveri pescatori un destino animato da un'ineluttabilità impossibile da contrastare. Pasquale Scimeca, cultore in materia, dopo aver adattato la novella verghiana Rosso Malpelo, porta sul grande schermo i Malavoglia. E lo fa attualizzando le tematiche del famoso romanzo di fine Ottocento, ambientando l'intreccio in un piccolo paesino siciliano di oggi, dove passato e presente si incontrano. La trama, simile a quella del testo originale, si concentra sulla sciagura del naufragio ma ha una portata universale perché ci dice che, anche se tragica, la vita umana va vissuta pienamente, meglio se "ascoltando i vecchi, che non ti sbagli" (sarà uno dei proverbi musicati nel finale del film). In questi tempi moderni di amara confusione si ha bisogno di maestri a cui fare riferimento.

Con il film precedente, Rosso Malpelo, aveva scelto un adattamento molto aderente al testo originale, mentre con i Malavoglia ha deciso di attualizzare la storia e ambientarla in età contemporanea. Come mai questa scelta coraggiosa?
Il punto di partenza di Verga era quello di un uomo che voleva raccontare i 'vinti' degli ultimi decenni dell'Ottocento, quando l'Italia si era da poco riunita. Quello era il suo mondo e voleva rappresentare la gente che viveva in quel tempo preciso perché il suo punto di vista era quello della povera gente. Io ho voluto fare mio lo stesso punto di partenza per riuscire a raccontare il mio tempo, il mio sud, quello vero e reale, non quello che raccontano i mass media sui canali televisivi. Nel romanzo, al di là degli aspetti bozzettistici del verismo, c'è una dimensione umana che riguarda tutti. La tragedia che c'è ad Aci Trezza è quella che unisce gli uomini, è quella che si racconta da sempre, da Omero ai giorni nostri.

Il suo cinema ha spesso un rapporto stretto con la letteratura, sia nella finzione che in fase di scrittura del progetto: per scrivere la sceneggiatura dei Malavoglia, oltre alla consolidata collaborazione con Nennella Bonaiuto, si è confrontato con Tonino Guerra e nel film il poeta siciliano Vincenzo Consolo fa un cameo esemplare. Da dove deriva questa predilezione per il mondo letterario?
La sceneggiatura l'ho scritta assieme a Nennella Bonaiuto e Tonino Guerra ci ha dato una mano. Abbiamo seguito il proverbio che conclude il film: "Ascolta i vecchi, che non ti sbagli". Tonino ci ha dato molti consigli utili e preziosi, è stato davvero un maestro. La collaborazione con Vincenzo Consolo invece, che ho l'onore di conoscere personalmente e che ritengo uno dei più importanti poeti contemporanei, è nata per gioco. Ci siamo sempre domandati come mai la critica letteraria non si fosse chiesta perché la barca dei Malavoglia si chiamasse proprio Provvidenza. È una barca che affonda più volte ma si chiama Provvidenza: non è strano? La risposta che ci siamo dati entrambi è che Verga fosse una personalità molto ironica e che in quella scelta ci fosse una polemica contro Manzoni. La presenza di Consolo nel film è un modo per sottolineare proprio questo aspetto che ci è sembrato importante mettere in luce. Ad ogni modo, la letteratura mi è sempre sembrata una forma d'arte fondamentale. Però, per un certo periodo, ho addirittura pensato che il cinema potesse sostituirla. E invece mi rendo conto che rappresenta ancora oggi la coscienza critica di una società ed è un fondamento che non va dimenticato.

Nel film si è affidato al talento naturale di un cast costituito interamente da attori non professionisti. Una scelta dettata dal desiderio di esprimere una forte sensazione di autenticità?
Abbiamo tutti un debito con il neorealismo italiano perché è stato un movimento che ha cambiato l'Italia. Luchino Visconti si era già ispirato alla letteratura verghiana con La terra trema, e in quell'occasione aveva chiamato a recitare tutti attori non professionisti. L'idea di cinema che voleva raccontare ruotava attorno alla realtà, era la realtà stessa e così persone che non avevano mai recitato prima ma che conoscevano molto bene un determinato ambiente, un certo modo di vivere, diventavano gli interpreti più adatti a rendere tutto più autentico. Mi piace molto questo aspetto del cinema neorealista, così ho cercato di aderire alla stessa tradizione e ho fatto un casting atipico, scegliendo solo attori non professionisti.

Uno degli aspetti più interessanti del film è l'attenzione che riserva alla dignità del lavoro, un tema che aveva giù affrontato in Rosso Malpelo. Oggi che il concetto di lavoro è spesso svalutato, perché ha scelto di concentrarsi su questo tema?
La scelta non è stata solo artistica ovviamente. Ci vogliono far credere che il lavoro sia qualcosa di cui vergognarsi. Per arricchirsi bisogna fare speculazione, fregare gli altri e prostituirsi, è un modo di pensare che considero la malattia del nostro tempo. Abbiamo perso la vera dimensione della realtà delle cose, ci fanno credere che ciò che non viene prodotto, allora non esiste. È una falsità inaudita perché nasconde il fatto che è proprio il lavoro che dà dignità all'uomo. Attraverso la speculazione si ruba la ricchezza degli altri, mentre con il lavoro onesto degli uomini che si alzano ogni mattina presto per andare al lavoro - e non è detto che siano felici, ma sicuramente sono veri - si produce una ricchezza che va a vantaggio di tutti. Dovremmo tornare ad una società più umana. Dopotutto la nostra Costituzione parla chiaro: il primo articolo dice che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e non dovremmo dimenticarcelo.

Come mai ha scelto proprio il rap per unire la saggezza popolare del nonno con la modernità del nipote, per far incontrare passato e presente?
Il rap nasce nei quartieri suburbani delle grandi metropoli americane. È un genere che unisce la poesia agli strumenti musicali ed è legata alle comunità emarginate che vivono in disparte, lontane dai centri ricchi del fermento cittadino. Così ho pensato che potesse adattarsi all'isolamento del piccolo paesino siciliano in cui ho ambientato il film. Ho anche pensato che la musica è, in fondo, la colonna sonora della vita, è qualcosa che porta con sé le grandi storie, soprattutto quando è unita a testi rilevanti. Nel film il ragazzo che prende i proverbi del nonno e li mette in musica rap è un giovane che chiede aiuto. Facendo quel gesto, confessa un bisogno intimo di avere degli avi, dei punti di riferimento ai quali appellarsi.

Dal film esce una visione molto positiva nei confronti dello straniero: il clandestino Alef viene accolto benevolmente dai protagonisti. Visti i recenti sviluppi della questione dell'immigrazione in Italia, qual è la sua opinione a riguardo?
I mass media ci bombardano ogni giorno con delle notizie allarmanti che inneggiano all'arrivo dei barbari ma giù a Lampedusa non passa giorno che non arrivi un barcone di immigrati. Però non si sentono mai casi di razzismo o di violenza. Anzi, sono molte le notizie che raccontano di gesti di solidarietà tra italiani e clandestini: c'è chi offre davvero anche solo un pezzo di pane, chi dà informazioni sui luoghi dove andare a dormire. E solo questa è la verità. Siamo costretti a fare i conti con una classe politica ignobile che vuol farci credere di essere vittime di un assedio di gente che viene a rubarci il lavoro. Ma quale lavoro? Il 99% delle persone che lavorano nelle serre dove vengono coltivati i pomodori pachino sono marocchini e ritroviamo la stessa situazione in città con le badanti o nelle raffinerie emiliane. Abbiamo due realtà: da una parte il flusso migratorio che fortunatamente continuerà ad esistere perché è così che una popolazione si evolve e si apre a diverse culture. Dall'altra una classe politica che non fa altro che produrre continuamente nuovi nemici da sconfiggere, appellandosi a motivi abietti.

Prevede di adattare altre opere verghiane in futuro?
Ho fatto i film che avrebbe voluto girare Luchino Visconti. Ho raccontato i contadini in Placido Rizzotto, i minatori in Rosso Malpelo e i pescatori in Malavoglia, per cui credo di aver approfondito abbastanza le tematiche verghiane. E poi, dopo aver trasposto al cinema l'opera più completa di Verga, I Malavoglia, credo di aver raggiunto il massimo. Però chissà, la vita ti può sorprendere.

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