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Tokyo Film Festival, La Foresta di Ghiaccio chiude il concorso

Si conferma il buon livello della competizione.
di Paolo Bertolin

In foto Emir Kusturica in una scena del film La foresta di ghiaccio di Claudio Noce.
Jean Debucourt Altri nomi: (sociétaire de la Comédie Française Jean Debucourt / Debucourt / Jean Deboucourt Sociétaire de la Comédie Française / Jean Debuco) 19 gennaio 1894, Parigi (Francia) - 22 Marzo 1958, Montrouge (Francia).

venerdì 31 ottobre 2014 - News

Con un giorno di anticipo sulla cerimonia di chiusura, si sono concluse le proiezioni dei film del Concorso Internazionale del 27° Festival Internazionale di Tokyo. Il film italiano in gara, La foresta di ghiaccio di Claudio Noce è stato l'ultimo a essere proiettato sul grandissimo schermo della sala 7 del cinema Toho di Roppongi Hills. A giochi fermi, si può confermare il buon livello della competizione, anche grazie ad un paio di film di provenienza est-europea passati negli ultimi giorni, il bulgaro The Lesson e il russo Test, i cui riferimenti alle devastazioni dell'atomica hanno sicuramente un'eco molto sentita presso la platea giapponese. Le chance del film di Noce paiono forse limitate, ma staremo a vedere cosa ha deciso la giuria - e lo sapremo nel giro di poche ore.

Tra i film presentati in concorso negli ultimi giorni, ben quattro provenivano da paesi dell'Europa orientale, Caucaso incluso. L'esordio dei bulgari Kristina Grozeva e Petar Valchanov, The Lesson, ci è parso il più solido, in termini di scrittura, messa in scena e recitazione. Già premiato a San Sebastian, questo racconto dardenniano ispirato da una storia vera, racconta di una professoressa d'inglese delle superiori della provincia bulgara che trova le proprie convinzioni morali messe a dura prova, proprio allorché vorrebbe/dovrebbe dare il buon esempio ai propri studenti. Quando, infatti, una studentessa denuncia il furto del proprio portafogli, l'insegnante cerca in ogni maniera di far venire il responsabile allo scoperto, per confessare e ammettere la propria colpa. Sul fronte privato, però, la donna è messa alle strette, dopo che scopre che il marito non ha pagato dei debiti in sospeso. La casa della coppia rischia d'essere messa all'asta e la protagonista è spinta ad una vera e propria discesa agli inferi per trovare i soldi necessari a estinguere il debito. Avvincente e moralmente provocatorio, il film di Grozeva e Valchanov non è esente da quei passaggi obbligati (per non chiamarli 'forzature') di sceneggiatura che caratterizzano la formula Dardenne post-Rosetta. Nondimeno, si tratta di un'opera che confronta lo spettatore ad una serie di situazioni da horror del quotidiano, dove il classico interrogativo, "Tu cosa faresti al posto suo?", ha valenza morale tutt'altro che scontata. Imperativo segnalare l'interpretazione di Margita Gosheva che si candida al premio per la miglior attrice, in un concorso invero già ricco di ottime prove d'interpreti femminili.

Cinema astratto e atemporale, invece, con il russo Test di Alexander Kott. Sullo sfondo quasi western di una non identificata steppa centroasiatica si consuma un'apologo tragico e senza dialoghi che assurge a denuncia della stupidità dell'ambizione umana. Un uomo e la giovane, bellissima figlia vivono in una casa isolata, sporadicamente visitata da incongrui passanti. Tra questi, un giovane fotografo/cineasta russo e un cavallerizzo centroasiatico che si prendono della giovane e che se ne contendono i favori. Ma sull'idillio e i tenzoni amorosi incombe la sinistra ombra di esperimenti in corso nella landa desolata. Quello di Kott è un cinema che cerca deliberatamente la poesia e che trae considerevole vantaggio da paesaggi che si aprono allo sguardo creando set naturali la cui piattezza d'orizzonte dona una dimensione statuaria alle presenze umane e non che vi si ergono. Il messaggio antinucleare, poi, pare perfetto per conquistare favori a queste latitudini. A tratti, Kott si lascia però prendere la mano, e certe situzioni scivolano nella caricatura o nello stucchevole, vuoi per eccessi didascalici o per la troppa fiducia nello spingere il pedale delle trovate visive e sonore.

Non c'è molto da dire, invece, sul polacco The Mighty Angel di Wojtek Smarzowski, adattamento letterario incentrato sulla storia di uno scrittore alcolista e il suo percorso di riabilitazione 'per amore', se non altro perché, a giudizio di chi scrive, la messa in scena tra continui andirivieni spazio-temporali delle prodezze alcoliche di questo Barfly polacco e dei compagni di rehab rivela un esibizionismo non poco exploitative, privo di umanità ed empatia - anche a livello di ribellismo autodistruttivo.

A chiudere il quartetto, l'azero Nabat di Elchin Musaoglu è uno dei due titoli passati in concorso a Tokyo che i cinefili italiani ricorderanno negli Orizzonti dell'ultima Mostra di Venezia. Curioso che anche questo sia un apologo metaforico scevro di dialoghi, dove un'anziana contadina si ritrova a tenere da sola in vita un villaggio su cui incombono i fulmini e i tuoni della guerra. Di confezione assai tradizionale e piuttosto ridondante nella metafora, Nabat ha il suo punto di forza nell'interpretazone convinta della veterana iraniana Fatemeh Motamed Arya.

L'intensa prova di Arielle Holmes, alle vicende personali della quale s'ispira il film, è l'elemento più convincente dell'altro reduce dal Lido di Venezia, Heaven Knows What di Joshua e Benny Safdie, indie cassavetiano che racconta senza moralismi un'ossesione d'amore tra tossici per le strade della New York di oggi.

Una prima mondiale assoluta è invece l'ultimo titolo in lizza per i premi, il francese Les Jours Venus di Romain Goupil. Ed è abbastanza curioso che il nuovo film di Goupil faccia la sua prima a Tokyo. Regista che gira in prima persona, interpretando se stesso e infarcendo il suo cinema di riferimenti alla propria vita e allo stato di cose socio-politico contemporaneo - francese e non solo, Goupil è uno di quegli autori d'Oltralpe il cui cinema rischia di parlare appieno solo ad una ristretta cerchia di adepti e convertiti. Si fa un po' fatica quindi a immaginare che la platea giapponese media abbia abbracciato appieno la peraltro amabile (auto)ironia di quest'opera crepuscolare, che ricama sulle sorti di un cineasta sessantenne alle prese con l'intricata burocrazia delle pratiche dell'INPS francese, con il suo nuovo progetto cinematografico (a sua detta, il suo più commerciale: un regista causa catastrofi naturali ogniqualvolta inizia a girare...) e con la messa in scena del proprio funerale. Fatichiamo ancor di più a immaginarlo incluso nel palmarès della giuria molto hollywoodiana di Tokyo 2014. Ma non si sa mai: se c'è un ambito in cui sorprese e piccoli miracoli sono sempre dietro l'angolo, è proprio quello dei verdetti dei festival. E riconoscimenti o meno, siamo grati a Goupil per il buonumore che Les Jours Venus dispensa con intelligente nonchalance.

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