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Festival di Roma, parla Marco Müller

Il presente e il futuro della manifestazione secondo il Direttore artistico.
di Robert Bernocchi

In foto Marco Müller, Direttore artistico del Festival di Roma.
Marco Müller (70 anni) 7 giugno 1953, Roma (Italia) - Gemelli.

giovedì 20 dicembre 2012 - Incontri

Lo scorso mese, il Festival di Roma ha iniziato un nuovo percorso con la direzione di Marco Müller, che non ha mancato di effettuare importanti modifiche rispetto alle scelte dei suoi predecessori. Infatti, il nuovo responsabile artistico ha optato per un programma di anteprime mondiali, che è riuscito a ottenere maggiore attenzione all'estero rispetto al passato, ma che ha provocato anche forti polemiche nei mass media italiani. A fronte di un concorso che ha ricevuto diverse critiche (ma che ha anche presentato film importanti di nuove potenze cinematografiche come la Russia e la Cina), le cose sono andate meglio per quanto riguarda Cinemaxxi, una sezione che ha replicato l'esperienza veneziana di Orizzonti. Ne parliamo con il Direttore artistico della manifestazione, anche per capire cosa ci riserva il futuro, che si preannuncia molto diverso, soprattutto per l'intenzione di lavorare tutto l'anno e in forme variegate.

Iniziamo dall'attualità. Recentemente, si è parlato della presunta mancanza dei fondi che devono arrivare dal Comune di Roma. Qual è la situazione?
Non credo sia una notizia fondata, tanto per cambiare. Il Comune finora ha onorato tutti gli impegni e non si capisce perchè adesso dovrebbe cambiare qualcosa con il pagamento dell'ultima rata. Articoli del genere servono a suggerire che ci sia in festival in disarmo; invece, stiamo già lavorando per l'edizione 2013.

E cosa ci possiamo aspettare per il 2013?
Posso dire che nel confronto post-festival con i principali interlocutori per la prossima edizione, tutti i grandi produttori americani, europei e asiatici appoggiano il discorso di iniziare con il ridare lustro alla splendida Arena di Massenzio, proponendo a inizio estate alcuni film importanti. Ma un pre-festival estivo da solo non basta. Ci piacerebbe mostrare tutto l'anno quello che avviene nel cinema mondiale, i titoli che passano nei grandi festival stranieri (in particolare i film che non hanno trovato dei compratori), così come quelli di Torino e delle Giornate del Cinema Muto. È il rapporto con i più diversi gruppi di spettatori che conta più di tutto. I programmi, insomma, che devono precedere un Festival metropolitano, che mostri titoli "popolari" sempre più forti, ma continui a valorizzare il lavoro di scoperta e quello di ricerca.
Potremmo poi dar vita a un centro di servizi, in coordinamento con tutte le realtà festivaliere esistenti nel Lazio, un sistema di vasi comunicanti. Visto che esiste una macchina solida e strutturata come la Fondazione Cinema per Roma, non ci si può limitare a preparare per 11 mesi un unico evento. A Venezia, ero frustrato dall'atteggiamento di produttori e venditori: di fronte ai costi altissimi di soggiorno, facevano rimanere attori e registi solo lo stretto indispensabile, mai più di due giorni. Roma, per fortuna, offrirebbe un tessuto connettivo diverso - e non parlo solo di alberghi, ristoranti e mezzi di trasporto.
La priorità va comunque alla creazione di uno spazio permanente per la Fondazione Cinema, non è possibile pensare una programmazione lunga un anno dove si debba riadattare ogni volta per il cinema una delle sale dell'Auditorium, per poi smontarla dopo ogni ciclo di proiezioni.

A questo proposito, il Festival rimarrà all'Auditorium?
L'Auditorium rimane un luogo straordinario di aggregazione, anche e soprattutto per i giovani. Per ora sicuramente sì, rimarremo. Nel 2013 così come per gli anni successivi. La situazione rimarrà questa: almeno finché non tornerà in auge il progetto del Parco delle Arti. Non credo ci debbano essere cambiamenti.

Quali sono state le critiche dei mass media sul Festival 2012 che ha trovato giustificate?
C'è sicuramente un punto su cui devo fare autocritica, quello delle prime mondiali anche per i film "popolari". Quest'anno un perfetto film d'apertura sarebbe stato Silver Linings Playbook, anche se era passato a Toronto. Invitare però in agosto un film che sarebbe stato presentato in seconda battuta, mentre chiedevamo agli altri produttori e venditori di aderire alla nostra politica di prime mondiali, avrebbe creato problemi. Film come Silver Linings Playbook sono iniezioni di ossigeno che fanno respirare il festival grazie ai gruppi di pubblico più ampio che possono riuscire a catturare, soprattutto nel primo fine-settimana.
Nel 2013, magari recuperando la grande sala Santa Cecilia, potremmo avere cinque giorni con una doppia proiezione serale, in cui inserire omaggi a personalità importanti e anche qualche film passato a Toronto. Dobbiamo trovare l'equilibrio fra le tre linee di concorso di quest'anno, che manterranno la loro proposta di prime mondiali, e le prime internazionali ed europee importanti, che portano con loro la giusta dose di glamour e sono dunque in grado di catturare per il festival anche un pubblico meno attento. Un'altra critica puntuale, inoltre, è stata quella di non aver realizzato libri per il Festival di Roma, nonostante esista in Fondazione un Settore Editoria con uno staff permanente: nel 2013 non abbiamo avuto il budget necessario. È un rimpianto che ho avuto anche al Lido, con Giulia D'Agnolo Vallan ci sarebbe bastato che la Biennale ci concedesse un piccolo fondo per pubblicare un libro che Quentin Tarantino stava scrivendo, un'analisi a confronto del cinema di Sergio Corbucci e Don Siegel, con una retrospettiva che avrebbe accompagnato l'uscita del volume.

E quali sono state invece le critiche che non ha trovato corrette?
Quando sento dire in maniera sarcastica che Tarantino e Wong Kar Wai non si sono visti, possibile che quei giornalisti abbiano dimenticato che il primo ha finito di missare il film a dicembre, il secondo è ancora in sala di montaggio. Ci hanno rimproverato di non aver messo in concorso Populaire, ma i produttori ci avevano chiesto espressamente di tenerlo fuori della competizione. Altri sostengono che sia stato un errore clamoroso far vedere il film di Greenaway soltanto in sale da trecento posti: peccato che questa fosse una richiesta del regista, che voleva evitare, vista la difficoltà e la durata del suo lavoro, il rischio di un'emorragia di spettatori "generalisti".
E di sicuro non ho trovato corretto parlare di sale vuote quando ogni volta, invece, i film della nostra selezione hanno trovato il loro pubblico in Sinopoli, Petrassi e Teatro Studio.
Per chi ritiene, infine, che i film dei tre concorsi di Roma non fossero validi, consiglio di controllare quanti dei nostri titoli siano già stati invitati da festival molto apprezzati internazionalmente come quello di Rotterdam.
Voglio precisare infine una cosa: non è il Festival di Roma a costare 11,5 milioni di euro, ma tutte le attività della Fondazione cinema per Roma; sarebbe utile sapere quanto costa davvero il festival.

Altri retroscena che non conosciamo?
Per esempio, ci avrebbe fatto comodo presentare a inizio festival The Motel Life, un film che è piaciuto a tutti, ma i produttori e il worldsale ci hanno detto che sarebbe stato disponibile soltanto se fosse passato l'ultimo venerdì, così da farlo vedere a chi veniva per il mercato.
Solo in un caso ho dovuto forzare delle decisioni anche contro il parere del Comitato di Selezione; scegliendo Una pistola en cada mano, che a molti dei nostri selezionatori non era piaciuto. Succede. Mi era capitato più volte anche a Venezia, il caso più clamoroso è stato quello di Essential Killing.

Ha destato molte polemiche la selezione di E la chiamano estate e i premi conquistati...
La scelta del film è stata fatta con grande serenità e all'unanimità del comitato di selezione. L'unico che aveva dubbi sull'opportunità di una posizione in concorso era stato proprio il regista. Anche le due straniere del comitato di selezione, con un'esperienza di vent'anni nei festival lo hanno giudicato un film italiano con delle potenzialità internazionali superiori rispetto ad altre produzioni.
Più in generale, però, il problema è stato superare sin da subito, da questa edizione di prova, gli steccati tra cinema "alto" e cinema "basso", cinema d'autore e cinema popolare, programmando almeno due prodotti di genere in concorso. Il canone del male di Miike Takashi, anche se nessuno ne ha parlato in Italia, è stato uno dei più grandi successi di pubblico quest'anno in Giappone.

Si prevede che la Cina diventerà il primo mercato mondiale nel 2020 per quanto riguarda gli incassi nelle sale, eppure invitare film cinesi sembra sempre una scelta esotica per i mass media...
Credo che il nostro Festival sia riuscito a dialogare alla pari con i Paesi del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), selezionando diversi titoli importanti. Più in generale, dovremmo lungo tutto l'arco dell'anno mostrare anche i campioni d'incasso dei paesi d'Europa, per capire magari come si ride in Scandinavia. Oppure i grandi film asiatici che trionfano al botteghino. Anche per gli addetti ai lavori sarebbe un modo per sapere cosa vogliono i più vasti gruppi di spettatori diversi da noi. La giuria 2012 ha alla fine scelto di ignorare il film di Johnnie To, che ho trovato notevole tanto stilisticamente che per il tema: un film realistico d'azione, che racconta il traffico di droga, sfidando la censura cinese continentale.

Diversi commentatori hanno criticato le scelte della giuria, sostenendo che siano stati favoriti i film sostenuti dalla Regione Lazio, suggerendo addirittura un'influenza diretta del Festival...
Pensa che sia stato facile per me comunicare a Johnnie To e Aleksei Fedorchenko che non avevano vinto nulla nonostante la qualità delle loro due opere?

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