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Storia 'poconormale' del cinema: puntata 133

Una rilettura non convenzionale della storia del cinema. Di Pino Farinotti.
di Pino e Rossella Farinotti

Il quadro 'The battle of war Bonet Creek' di Frederic Remington a confronto con una scena del film Sentieri selvaggi (1956) di John Ford.

venerdì 23 settembre 2011 - Focus

Il cinema e l'arte
Davvero interessante la vita di Frederic Remington. Nacque a Canton, stato di New York, nel 1861, anno d'inizio della guerra civile americana. Divenne cavallerizzo provetto, si laureò a Yale, fu uomo d'affari a Kansas City, studiò arte a New York, collaborò a importanti riviste. Nel 1898 divenne corrispondente di guerra e si trovò, accanto al leggendario magnate dell'editoria William Hearst, a raccontare la decisiva battaglia di San Juan Hills, guerra ispano americana. La raccontò disegnandola. Eccolo, il punto, Frederic Remington era un pittore. Molto importante, perché dipinse il west.

Soggetto
Esplorando nuovi lavori, esplorò il Paese. Il West era un soggetto perfetto. Lo erano i nativi, così diversi nei costumi e nel corpo, lo era il paesaggio. Gli Apaches vivevano nelle zone calde, nel deserto della Monument fin giù nel Nuovo Messico. Geronimo parlava spagnolo. In Florida c'erano i Seminole, popolo delle paludi, e poi i Sioux del Nord, Yellowstone e Wyoming. Fin su al Saskachewan, la regione delle Giubbe rosse. Possibilità pittoriche magnifiche, infinite. Il nome di Remington prevale. Ma un genere, una scuola naturale quella, naturalmente comprese altri artisti. Alcuni nomi non possono non essere fatti, come George Catlin, Charles Bird King e Octavius Carr Dardley. Soprattutto come Olaf Wieghorst, valorizzato da un altro eponimo del West, Howard Hawks, che compose la grafica dei titoli del suo El Dorado su una serie di dipinti di Wieghorst che sembrano fotogrammi del film che seguirà, con John Wayne e Robert Mitchum.
Diciamo che Remington può essere considerato il caposcuola.

Sperimentale
Quando Remington morì, nel 1909, il cinema era proprio all'inizio, roba sperimentale, o quasi. E così il pittore non se ne accorse. Ma il cinema si accorse di lui. Remington ebbe un adepto straordinario, ne sarebbe stato felice e lusingato: John Ford. Il grande regista di origine irlandese assunse l'estetica dei quadri del pittore. L'estetica era ciò che lo interessava. Dai quadri non capivi se gli indiani erano buoni o cattivi. Nel 1939 quando Ford girò Ombre rosse si disse che aveva legittimato un genere trascurato dalla critica, un sottogenere buono solo per lo spettacolo. Non era proprio così. De Mille aveva già nobilitato l'Ovest, con film come La conquista del West, che raggruppa, magari un po' arbitrariamente, tutta la mitologie e quasi tutti degli eroi della frontiera: Custer, Hickock, Buffalo Bill, con un passaggio su Lincoln e un frammento della famosa disfatta di Custer al Little Bighorne dove si intravede Toro seduto. De Mille non era Ford, ricostruiva tutto in interni. Persino cascate e foreste. I suoi indiani non erano ispirati dalla "verità" dei dipinti di Remington, ma disegnati da scenografi e costumisti. Erano impropri, esagerati, magari ridicoli. Certo erano spettacolari, secondo i concetti del regista. Concetti che fecero testo per decenni, comunque. Ma Ford stava più attento alla realtà. Del resto quei dipinti erano così ricchi, così pieni di informazioni da rendere superfluo il lavoro dei migliori professionisti del cinema. C'era già tutto in quel figurativo, i cavalli senza sella, le lance e gli archi, i costumi di pelle, e poi quelle penne multicolori, visibili e larghe da essere piegate dal vento. E poi il singolo e il gruppo. E la caccia al bisonte. E sullo sfondo il paesaggio detto sopra.

Assoluto
Nel 1956 Ford diresse Sentieri selvaggi, ritenuto il "western assoluto", e uno dei maggiori capolavori generali del cinema. Il film era pieno di indicazioni, contenuti e simboli. John Wayne è Ethan, un reduce per niente buono, deluso, quasi isterico che si mette alla ricerca della nipotina rapita dagli indiani che odia con tutto il cuore. Insieme a un giovane sanguemisto, Martin, percorre le vie dell'ovest, stagione dopo stagione. Questa personalità da antieroe, insolita per Wayne, permetteva a Ford di compensare l'indicazione che gli serviva in quel film, che gli indiani erano cattivi. Si era ancora negli anni Cinquanta, nei film i nativi erano gli antagonisti. Non sempre, quasi sempre. Adempivano a quel servizio.
La ricerca di Wayne diventa dolorosa, quasi metafisica. Passano le regioni, le tribù e gli anni. Il sole impietoso del deserto e le montagne innevate. Per Ethan l'odio è ormai diventato ragione di vita. L'intensità della pittura di Remington si presta benissimo al sentimento. Nel frattempo la bambina è diventata una ragazza, di fatto una selvaggia. Viene segnalata in un campo indiano. Entra in azione la cavalleria. Il campo viene distrutto. Ford si rifà al dipinto di Remington "The Battle of Warbonnet Creek". Battaglia storica delle guerre indiane, dove la tradizione narra, e probabilmente è vero, che William Cody, detto Buffalo Bill, uccidesse Mano gialla, uno dei vincitori di Custer al Little Bighorne, vendicando così quella sconfitta tragica e storica. Ethan-Wayne trova la ragazza, è vissuta con un capo indiano, dunque è contaminata. La solleva, ma non la uccide. L'abbraccia e le dice "vieni, andiamo a casa".
Alla fine Wayne non poteva essere cattivo e Ford non poteva essere razzista. Ci mancherebbe.

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