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Premio Sergio Amidei, al via la 30a edizione

Il cinema di François Truffaut protagonista dell'edizione 2011.
di Roy Menarini

François Truffaut Altri nomi: (François / F. Truffaut ) 6 febbraio 1932, Parigi (Francia) - 21 Ottobre 1984, Neully-sur-Seine (Francia).

giovedì 14 luglio 2011 - Approfondimenti

A rivederli tutti insieme, uno dopo l'altro, i film di Truffaut somigliano a un panorama in movimento. Si pensa di aver sotto controllo la struttura generale del paesaggio, ed ecco invece che nuovi particolari - mai notati prima - modificano le coordinate e il quadro generale. E viene molta invidia nei confronti di chi - come forse i più giovani degli spettatori del Premio Sergio Amidei - incontreranno per la prima volta i film del maestro francese. Questa retrospettiva, una delle più grandi che in Europa siano state dedicate a Truffaut, pensata e costruita insieme all'Ambasciata di Francia e all'insostituibile Massimo Saidel, mostra - proprio perché concentrata nei dieci giorni della manifestazione - il valore civile di una monografia di questo tipo. Vedendo "tutto Truffaut" si costruisce una relazione culturale, passionale, quasi "etica" con l'oggetto di studio e di piacere. Il cinema riporta, grazie alla fruizione dei capolavori truffautiani in sala, a un ruolo sociale e di condivisione quale nessun dvd visto a casa propria potrà restituire. Lo diciamo senza alcuna retorica conservatrice: il mondo va avanti, viviamo in una ecosfera mediatica che ci circonda sempre più, le immagini ormai sono parte stessa della nostra vita quotidiana. Ancora di più, dunque, il valore di "esperienza" che una retrospettiva di questo tipo offre non ha eguali, perché richiede (e rimanda) una concentrazione, una dedizione quasi assolute, tra sé e la sala, tra il cinefilo e l'opera integrale di un autore che ci parla attraverso le proprie opere.
Di Truffaut vedremo il massimo. I film diretti, i film sceneggiati, i cortometraggi d'esordio, i film amati, gli incontri, le masterclass, e tutto quello che viene offerto nei giorni del festival servono a disegnare una personalità complessa, poliedrica, tutt'altro che prevedibile, controversa.

Perché proprio Truffaut?
Se davvero ci fosse bisogno di rispondere a una domanda del genere, potremmo dire che per il Premio Amidei - un evento legato culturalmente alla lettura, alla scrittura, ma anche a una concezione ampia e culturalmente ricca delle opere d'autore - Truffaut è l'artista ideale. Non solo è sceneggiatore dei propri film e di quelli degli altri, non solo è l'ideatore della politique des auteurs (la politica degli autori) che ha per sempre dato dignità alla figura del regista cinematografico, non solo è un maestro indiscusso della storia del cinema, non solo è un innovatore cui tutto il cinema contemporaneo deve qualcosa; è soprattutto un intellettuale, nel senso più serio e onesto del termine. Un uomo - ecco ancora un aspetto caro all'Amidei - che ha sempre dichiarato il proprio amore per la letteratura e per il cinema, due forme indivisibili nel suo cinema. Gli adattamenti, certo (Roché, Goodis, Bradbury, etc.), ma anche la fittissima rete di citazioni, rimandi, allusioni letterarie, coronate dal film che esplicita maggiormente la passione per la parola scritta (Farenheit 451). Parola scritta di cui Truffaut era padrone e grande virtuoso, nella sua carriera critica: sì, perché - non bastassero i meriti da cineasta - Truffaut ha rivoluzionato anche il modo di fare critica e di essere cinefili. Da lui (e dai "Cahiers du Cinéma", la rivista che contribuì negli anni Cinquanta a rendere immortale) proviene buona parte degli strumenti con i quali la cultura cinematografica, tanto nella saggistica quanto negli studi accademici, ha potuto in seguito nobilitarsi.
Se, dunque, l'amore per il cinema, vissuto in maniera sensuale e totalizzante, da divoratore e conoscitore raffinatissimo, e l'amore per la letteratura hanno avuto modo di incontrarsi, ciò è avvenuto in un primo tempo proprio grazie alla critica, un luogo in cui la scrittura e i film si potevano incontrare e abbracciare.
Poi, una volta divenuto regista, Truffaut - com'egli stesso desiderava ripetere - non ha comunque mai smesso di essere un letterato e umanista, e non ha mai smesso di essere un critico e cinefilo, viste le altrettante citazioni e gli incalcolabili riferimenti ad altri film e ad altri registi amati di cui le sue pellicole sono piene.

Il pessimismo del regista
Delle tante eredità che Truffaut ha lasciato dietro di sé, quella più fraintesa è stata l'etichetta di "regista dei sentimenti". Un'opinione comune un po' logora fa credere che Truffaut sia il cantore dell'amore, delle passioni esaltanti, dei triangoli d'amore, e di tutto ciò che il romanticismo moderno rischia di rendere stucchevole. Pochi ricordano il grande pessimismo di Truffaut. Anzi, si potrebbe dire che tutta la sua filmografia è l'opera di un autore che spiega come l'amore tra un uomo e una donna sia impossibile, o comunque non possa durare, e in ogni caso non sia destinato alla felicità. Un'aspirazione, quella alla felicità appunto, che nei personaggi di Truffaut è divorante, e che - proprio a causa delle proporzioni di tale desiderio - si risolve spesso con una catastrofe. Ovviamente ci sono i colpi di pistola (La calda amante, La signora della porta accanto), capaci di mettere fine tragicamente agli amori tormentati o semplicemente alla dignità ferita. Ci sono gli incidenti mortali (Jules e Jim) e i decessi per "troppa vita" (L'uomo che amava le donne). Ma ci sono anche le dichiarazioni estreme di un amore perenne (il finale di Baci rubati), considerate frutto di pazzia e ossessione, o le strazianti reazioni fisiche, biologiche, fisiologiche del mal d'amore, come svenimenti, nausee, tremori, virus (Le due inglesi, Adele H.). A volte, tuttavia, l'amore finisce in farsa (Mica scema la ragazza!), o in ironico, avventuroso autoinganno (La mia droga si chiama Julie). Quasi mai, però, l'amore reca con sé l'espressione di un compimento esistenziale, è quasi sempre un passaggio, un treno che va troppo veloce per restarvi aggrappati, un luogo di esaltazione individuale e di condivisione assoluta, tanto assoluta che l'uomo - che assoluto non è - deve a un certo punto separarsi da quella condizione. Fin troppo facile scorgere, in questa poetica, il segno della morte, non tanto nel consunto binomio eros/tahanatos (lontano da Truffaut, almeno nelle sue implicazioni tradizionali), quanto quello di un vitalismo supremo che fa i conti con l'unica dimensione esistenziale in grado di risarcire il senso di perdita e di assenza della vita quotidiana, lavorativa, reale: l'amore appunto. La passione d'amore, meglio.
Il vitalismo, come noto, si nutre sia di frenesia ed euforia, sia di disperazione e senso di mancata pienezza. Ecco perché i protagonisti di Truffaut sono fondamentalmente dei malinconici. Il mondo gli sfugge, l'assenza di vita è incomparabile alla vita stessa, l'amore può essere vissuto solo se inteso come l'appagamento di un senso superiore, che però avvicina - paradossalmente - l'essere umano alla morte. Qui sì, l'erotismo è, per dirla alla francese, "piccola morte", secondo l'intuizione che avvicina cinema, amore e morte cara al maestro di Truffaut, Bazin.

La rivoluzione della cinefilia
Esistono, però, amori vicari. Uno di questi è il cinema. La rivoluzione copernicana della cinefilia secondo Truffaut e i "Cahiers du Cinéma" è nascosta ancora una volta nel sentimento dominante attraverso cui si sceglie di osservare. Si rifiutano i canoni della medietà o della mediazione, per parlare di film. I film sono oggetti, anzi soggetti, d'amore, di condivisione, di passione, di relazione (non una volta sola, ma più e più volte). In quanto frammenti di un discorso amoroso, i film - invece che sostituire la vita - ne costituiscono una sorta di organismo affiancato, una specie di corpo fantasmatico che sublima tutti i desideri. Ovviamente, così come quando si ama si deve contemplare anche l'odio, così i film possono essere amati ma anche odiati. Di qui la polemica insita nel concetto di politica degli autori. Dunque le citazioni in Truffaut non sono un orpello, o uno sfoggio di erudizione, o anche solo un modo per strizzare l'occhio ai compagni cinefili. Le allusioni, i riferimenti, gli omaggi e i rimandi sono un'espressione di amore selettivo, di scelta attraverso cui l'autore decide chi è degno del suo sentimento, e soprattutto individua coloro (i film) da cui egli permette di essere influenzato e persino modificato nel profondo.
Sì, perché il cinema di Truffaut - e forse di tutta la nouvelle vague parigina - è anche l'espressione di un cambiamento nel fare cinema. D'accordo, anche qui, con la vulgata tradizionale della "prima generazione che conosce la storia del cinema", dei registi/cinéphile che smontano e rimontano il linguaggio e la grammatica. Ciò che, però, differenzia Truffaut (e Godard, più radicale e avanguardista, e perciò in volontaria contumacia rispetto al cinema narrativo caro all'ex amico François) dai registi postmoderni di oggi è la scelta di poter essere cambiati dal proprio oggetto d'amore. Truffaut individua nella storia del cinema e nei film degli autori amati non solamente il magistero di un'arte da apprendere e imitare, ma un complesso di sentimenti, scelte, comportamenti, emozioni, consigli, gesti, rappresentazioni da cui si sceglie di essere cambiati, anche nel profondo, cui si chiede di entrare - come aspetti concreti della vita estetica - nel proprio mondo artistico. Un atto d'amore, appunto, arbitrario, personale, incredibilmente generoso.

Ribelle ai discorsi sociali dominanti
Di qui consegue, ovviamente, che l'amore - per le persone e per i film - segue le regole proprie, molto lontane dalle leggi sociali e dai regolamenti legislativi. Il cinema di Truffaut è una continua, esplicita ribellione ai discorsi sociali dominanti, alle regole della convivenza comunitaria, al rapporto di subalternità delle aspirazioni vitalistiche rispetto al soffocamento delle norme dell'epoca di volta in volta rappresentata. La sequenza chiave è quella in cui l'anziano saggio della buona borghesia britannica, in Le due inglesi, richiesto di un consiglio sull'amore scoppiato tra il giovane francese e la conterranea, architetta una prova diabolica: i due giovani non si dovranno vedere per un anno, e se dopo dodici mesi il loro amore sarà ancora saldo, allora il matrimonio avrà via libera. Il cinema di Truffaut è pieno di queste crudeltà, di questi impedimenti, di queste regole studiate apposta per soffocare l'amore. Salvo che, poi, neanche l'amore nella sua purezza e nella sua espressione più autentica, basta a garantire la felicità, se non in momenti unici e meravigliosi.
Non si pensi poi che quando il regista francese ha vestito i panni dell'attore nei suoi stessi film, la scelta abbia significato una indicazione più chiara della sua poetica. Ne Il ragazzo selvaggio, pur mettendo in scena un medico progressista, Truffaut fa di se stesso un esempio di fallimento: non si può educare un essere umano se non spogliandolo di alcune delle sue caratteristiche più genuine. Così come Effetto notte, dove la speranza del cineasta di far coincidere arte e vita, o comunque di esercitare il controllo sulle fasi creative di entrambe, non può funzionare. O in La camera verde, dove il rivoluzionario culto dei morti da parte del protagonista è, insieme, rifiuto dell'amnesia suggerita dal progresso ma anche esiziale e cronico lutto che annienta la aspirazioni umane.
Dunque, per concludere, quello di Truffaut è un cinema dell'impossibilità, eppure narrata con tutta la passione di cui i film sono capaci.

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