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Storia 'poconormale' del cinema: i modelli

Il ritratto dei grandi pugili nel cinema americano.
di Pino Farinotti

Una leggenda sfumata

venerdì 19 febbraio 2010 - Focus

Una leggenda sfumata È una vicenda di inizio del secolo scorso, dunque sfumata, ma che non va dimenticata, perché i suoi significati erano, e sarebbero stati, molto importanti. Si parla di un pugile nero nato a Galveston, North Carolina, nel 1878, Jack Johnson: è stato il primo pugile di colore a conquistare il titolo di campione del mondo. La leggenda di Jack è completa, le coccarde ci sono tutte: tanti fratelli, famiglia di schiavi, tanti lavori tentati prima di arrivare nel Texas e combattere per strada, giusto per le scommesse dei bianchi. Divenne professionista in tempo per farsi arrestare: non erano ancora ammessi i combattimenti in quello stato. L'arresto divenne una costante per il ragazzone di un metro e novanta. Tutti i pretesti erano buoni, come quando gli misero le manette perché aveva offerto alla sua ragazza un biglietto del treno. L'imputazione fu istigazione alla prostituzione. Ma Jack era davvero troppo forte, più forte di tutti i contesti. Uno dopo l'altro mise k.o. i suoi avversari, quasi tutti bianchi e nel 1908 dovette andare in Australia per affrontare Tommy Burns e diventare campione del mondo. Ma la società americana, in quel tempo, non poteva davvero tollerare che un nero fosse campione del mondo e apprestò tutte le difese possibili. Per esempio ai suoi incontri non si potevano fare fotografie, sarebbe stato troppo umiliante per un bianco finire sulle pagine dei giornali d'America... al tappeto. Johnson venne minacciato in tutti i modi. Il suo stesso manager lo indusse a cedere e così, nel 1915, a Cuba, accettò di perdere il titolo, contro il bianco Jess Willard che non valeva un mignolo del suo pugno. L'immagine di Jack al tappeto, con la mano davanti agli occhi per ripararsi dal sole è uno dei grandi manifesti dello sport. Appesi i guantoni aprì ad Harlem il Club Deluxe che più tardi cambiò nome diventando il leggendario Cotton Club. Questo nero orgoglioso e coraggioso non poteva non diventare parte della mitologia del pugilato e modello della questione razziale. La tradizione rimanda una sua frase diventata un testamento: "Sono nero. Non mi hanno mai permesso di dimenticarlo. In ogni caso io sono nero! E non permetterò mai che lo dimentichino". Nel 1967 la storia di Johnson divenne un film, The Guest White Hope, diretto da Howard Sackler, mai venuto in Italia. Nel 1970 Miles Davis ha dedicato al pugile il disco A tribute to Jack Johnson. Tuttavia Jack, una rivincita esemplare se l'era presa: aveva avuto tre mogli, tutte bianche. Realtà Il cinema americano ha dunque dedicato un film ai suoi grandi pugili. Ma il cinema non poteva naturalmente fermarsi alla realtà e così, sempre in virtù delle grandi possibilità offerte dal ruolo, altri pugili se li è inventati. E come spesso accade quando c'è di mezzo il cinema, la fantasia supera la realtà. Infatti, il pugile più famoso dello schermo è un Rocky, ma non è Marciano e neppure Graziano, è Sylvester Stallone. La saga di Rocky Balboa ha resistito per sei film e trent'anni, esattamente dal 1976 al 2006. Il primo titolo, diretto da Avildsen, vinse anche l'Oscar assoluto. Rocky-Stallone è davvero una della icone del cinema, tanto incisiva da aver trasceso il cinema. Rocky è stato il ragazzo povero che si emancipa arrivando, di pura volontà al titolo, poi ha battuto i grandi campioni, i semidei, ha affrontato il russo cattivo Ivan Drago, umiliando l'atleta e il suo Paese, quando c'era ancora la guerra fredda. Invecchiato, non potendo più salire sul ring nel quinto episodio diventa allenatore e dispensa tutti i suoi buoni consigli e principi. Nell'ultimo film Rocky è rimasto solo, sua moglie Adriana è morta. Apre un locale che funziona, ma il ring era il ring, era palestra e vita. E così si chiude la saga di questo eroe sessantenne. E insieme a Rocky, tramonta anche Stallone. Una bella storia americana. Grotteschi Non sono poi molti gli attori che potevano permettersi di salire sul ring senza essere grotteschi. Certo, ci voleva il fisico. Kirk Douglas, William Holden, Tony Curtis, Burt Lancaster, Jack Ryan, lo stesso Delon sono stati degli ottimi pugili. Ma c'è un altro grande titolo sul pugilato, non è la storia di un campione ma l'ispirazione è vera. Nel 1956 Mark Robson firmò Il colosso d'argilla. Era la storia di Toro Moreno, un gigante dall'aspetto feroce ma dal pugno... normale. La Mafia fiuta l'affare, incarica un cronista sportivo, Bogart, di organizzare il grande imbroglio, e fra scommesse truccate e incontri fasulli, il pugile ignaro arriva fino alla soglia del titolo. Ma quando deve affrontare un pugile vero naturalmente crolla. La vicenda di Toro ricordava quella del nostro Primo Carnera, usato dall'organizzazione finché servì. Nel '34 Carnera venne battuto da Baer, a tradirlo fu il suo stesso manager. Gli americani che avevano subito il nero Johnson non avevano grande simpatia neppure per l'italiano Carnera. Primo tornò in Italia, umiliato e senza un soldo. Si adattò a incontri di lotta libera ridicoli. Fece anche l'attore, ma in altri ruoli, non da pugile. Solo che c'era una differenza rispetto al Toro d'argilla, Primo Carnera fu il primo campione del mondo italiano, e pugile vero.

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