12 anni schiavo

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Un film di Steve McQueen (II). Con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti.
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Titolo originale 12 Years a Slave. Biografico, durata 134 min. - USA 2013. - Bim Distribuzione uscita giovedì 20 febbraio 2014. MYMONETRO 12 anni schiavo * * 1/2 - - valutazione media: 2,94 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Percorso accidentato dalla schiavitù alla libertà. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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mercoledì 20 giugno 2018

12 ANNI SCHIAVO (USA/UK, 2013) diretto da STEVE MCQUEEN. Interpretato da CHIWETEL EJIOFOR, MICHAEL FASSBENDER, BENEDICT CUMBERBATCH, PAUL DANO, PAUL GIAMATTI, BRAD PITT, LUPITA NYONG'O, ALFRE WOODARD, GARRET DILLAHUNT, SARAH PAULSON
Nel 1841, prima della Guerra di Secessione, il talentuoso violinista di colore Solomon Northup è un uomo libero che vive con la moglie Anne e i figli Margaret e Alonzo a Saratoga, nello stato di New York. Imbrogliato da due falsi artisti circensi nella veste di agenti che credeva amici, si reca con essi a Washington, dove, dopo esser stato drogato, viene imprigionato, frustato, privato dei documenti che attestano la sua libertà e condotto in Louisiana, dove rimarrà fino al 1853, cambiando per tre volte padrone e lavorando principalmente nella piantagione di cotone dello spietato schiavista Edwin Epps, ricco e crudele proprietario agrario. Solomon è ormai ridotto in condizioni di pura e brutale schiavitù, e infila un incubo all’apparenza interminabile nel quale sperimenta la cattiveria degli uomini e la tragedia della sua gente. Fra la malvagità di Epps e inaspettati quanto rari atti di carità, Solomon (ribattezzato Blatt, che è costretto ad assumere come nome da schiavo) lotta non soltanto per sopravvivere, ma anche per conservare la propria dignità. A colpi di frusta datigli da padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, il pover’uomo avanza nel cuore oscuro del calvario statunitense provando a resistere e a riappropriarsi del suo autentico nome. Nel dodicesimo anno della sua terrificante disavventura, l’incontro casuale con l’abolizionista canadese Samuel Bass gli fornisce una speranza e una chiave di svolta nelle quali non sperava quasi più, ponendo un termine alla sua vita d’inferno. Bass riesce a rintracciare la famiglia di Solomon, che così viene raggiunto, identificato e finalmente liberato. Tornato a casa, riabbraccia la moglie e i figli ormai divenuti adulti, fra cui Margaret che l’ha reso nonno partorendo un bambino che ha chiamato come suo padre. Come recitano i titoli di coda, negli anni successivi Solomon intentò una causa contro i rapitori che l’avevano schiavizzato, senza tuttavia riscuotere un esito positivo, e s’impegno in battaglie legali a favore del fronte abolizionista. Per il suo popolo, occorreranno ancora quattro anni, un conflitto civile e il proclama di emancipazione di un Presidente illuminato. Adattamento del romanzo omonimo e autobiografico di Northup, sceneggiato da John Ridley, è un sontuoso film sulla schiavitù, aggressivo, veemente, che senza scorciatoie mostra e narra la natura dell’uomo, in grado di provare o infliggere intollerabili soprusi fisici e psicologici su altri uomini; è la storia di un’ingiustizia subita da un uomo che riesce a resistere, a non perdere la sua dignità; ed è assieme la storia di una speranza. McQueen dirige con un approccio pratico, lineare, all’apparenza facile ma in realtà pragmatico e veritiero: in una cornice pittorica meravigliosa (la natura, gli ambienti, i costumi: fotografia di Sean Bobbitt), disegna personaggi/caratteri volutamente squadrati, il martire, il vigliacco, il sadico, la vittima, il buono, gli indifferenti, per convincere lo spettatore a vedere, comprendere, indignarsi, commuoversi. Vi si può riscontrare anche un sottotesto religioso che, schivando abilmente le pretese di estremismo o di moralismo, traccia la figura di un Cristo di carnagione scura che però scampa alla morte, ma pur tuttavia, come il suo omologo originale, risorge, una volta riconquistata la libertà. C’è perfino un’analogia con Il pianista (2002) di Roman Polanski: il film del regista polacco raccontava la storia, anch’essa reale, di Wladyslaw Szpilman, suonatore di pianoforte rifugiatosi nel ghetto di Varsavia per non subire la stessa sorte dei parenti, deportati nei campi di sterminio; la sua musica gli ha permesso di sopravvivere. Solomon Northup è solo nella sua disgrazia e, a differenza di Szpilman, è meno fortunato dei suoi congiunti, ma continuare a suonare il violino malgrado la schiavitù gli dà il coraggio di tirare avanti anche in quelle feste in cui il razzismo dei proprietari terrieri costringe la servitù a ballare a suon di musica o, ancora peggio, per quanto paradossale possa sembrare, ricevere compensi sottoforma di cibo per l’ottimo lavoro svolto, come in un rapporto asino-contadino in cui ancora vigono il bastone e la carota. Interpreti da applauso: Ejiofor tira fuori il meglio di sé, facendosi anche conoscere dal pubblico internazionale per la prima volta, nel delineare un uomo istruito e pertinace; Fassbender è un credibilissimo antagonista principale che somministra le nerbate come confetti, tradisce la moglie e punisce chi, alle sue dipendenze, ha raccolto la minor quantità di libbre di cotone; Cumberbatch è il più umano dei proprietari terrieri che acquistano il protagonista, costretto però a trasferirlo dopo che questi ha avuto uno screzio e poi una colluttazione col capo-carpentiere (un P. Dano senza baffi dal piglio perfido e arrogante); Giamatti è un efficace mercante di schiavi molto abile nel contrattare sui prezzi di ciascuno, soprattutto scrupoloso nell’indicazione delle qualità al fine di arricchirsi a più non posso; L. Nyong'o è a suo agio nei panni della giovanissima e minuta schiava che supera i maschi nella raccolta del cotone, dapprima nelle grazie del padrone, dopodiché a lui invisa e peggio ancora da lui odiata non appena Epps scopre i suoi maneggi (del tutto innocui e innocenti, fra l’altro) con Solomon, il che le costa un numero incalcolabile di ferite inflitte alla schiena; S. Paulson recita il ruolo della signora Epps rimproverando al marito le scappatelle extraconiugali, non nascondendo mai il suo disprezzo razziale ma conservando comunque un certo tono di fermezza che le permette di esprimersi sempre con la testa sulle spalle; infine, il bravissimo B. Pitt (anche co-produttore), nonostante compaia solo in due sequenze, espleta magnificamente l’esegesi del rapporto uomo bianco-uomo nero in cui il primo, se agisce con virulenza nei confronti del secondo, un domani dovrà rispondere delle sue azioni riprovevoli a un’entità superiore, sfoderando la saggezza del viaggiatore che conosce a fondo gli esseri umani e meglio ancora la loro inderogabile necessità di uguaglianza reciproca. Oscar 2014 per il miglior film, sceneggiatura non originale e attrice non protagonista (Nyong'o).

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