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Rassegna stampa di Satyajit Ray

Satyajit Ray. Data di nascita 2 maggio 1921 a Calcutta (India) ed è morto il 23 aprile 1992 all'età di 71 anni a Calcutta (India).

A CURA DELLA REDAZIONE
MYmovies.it

Ha dato rinomanza artistica internazionale al cinema del suo paese. "Nel 1950 andai in Inghilterra ed ebbi occasione di vedere i primi film neorealisti italiani. Improvvisamente mi resi conto che opere come Ladri di biciclette erano state fatte con pochi soldi e senza attori professionisti. Questo veramente mi aprì gli occhi. Durante il viaggio di ritorno scrissi l'intera sceneggiatura di Pather Panchali". Nel frattempo, Jean Renoir girava in India Il fiume (1951) che ebbe pure un forte influsso su Ray. Cominciato nel 1952, Pather Panchali, per difficoltà finanziarie, fu terminato nel marzo del 1955. Al festival di Cannes della primavera 1966 Pather Panchali (Il lamento del sentiero) costituì una rivelazione analoga a quella del giapponese Rashomon a Venezia nel 1951. Il film successivo, Apanajito (L'invitto), ottenne invece a Venezia il Leone d'oro nel 1957, bruciando sul traguardo Le notti bianche di Visconti. La trilogia si sarebbe conclusa più tardi con Apur Sansar (Il mondo di Apu, 1959) e sarebbe stata denominata "trilogia di Apu" dal nome del protagonista: un fanciullo che diventa uomo e, in questo suo sviluppo, consegna l'immagine spirituale di una civiltà alle soglie di profondi mutamenti. È un'epica dell'India moderna espressa nei toni lirici, contemplativi e introspettivi tipici dell'arte e del pensiero di questo paese. Tuttavia il bengali, la lingua in cui era scritto il romanzo originario di Bibhutibhusan Bandapaddhay e in cui parlano i personaggi di Ray, riguarda appena il due per cento (anche se è un due per cento piuttosto attivo) della popolazione dell'Unione Indiana, il che può dare un'idea dell'isolamento in cui si trova il regista. Invece la spinta che Ray diede al cinema bengalese, e specialmente ai giovani, è abbastanza notevole. Tra la seconda e la terza parte della trilogia, il regista girò due film: fallito il primo, Parash Pathar (La pietra filosofale), ma non trascurabile, il secondo, Jalsaghar (Il salotto da musica). Nel 1960-61 Ray si occupò del centenario di Rabindranath Tagore realizzando contemporaneamente due film celebrativi: Tre figlie, un trittico da suoi racconti brevi, in cui per la prima volta compose lui stesso il commento musicale, e un documentario-omaggio al novelliere, poeta, pittore, musicista e filosofo, in cui per la prima volta usò il colore. Anche Kanchenjungha (nome d'una montagna) è a colori e, per la prima volta, su soggetto proprio. Un film "alla Antonioni», si disse in India; mentre più fedele al suo inconfondibile stile venne giudicato il precedente Devi (La dèa), giunto a Cannes nel 1962: storia di un padre devoto che vede nella nuora l'incarnazione della dea Kali e, per superstizione religiosa, rovina la vita della giovane coppia, cui d'altronde è molto affezionato. Con Abhijan (Spedizione) R. presentò una commedia, colorita e pittoresca di 'neorealismo minore'. Segue una trilogia che potremmo chiamare "matrimoniale"nella carriera di Ray: i primi due film, Mahanagar (La grande città) e Charulata (La donna sola) presentati e premiati a Berlino rispettivamente nel 1964 e nel 1965, sono eccellenti. Entrambi basati su una coppia di sposi e sulla introspezione di difficili vittorie morali, hanno al centro squisite figure femminili, sempre interpretate dall'attrice Madhabi Mukherjee, protagonista anche del successivo Kapurush (Il vile) ammesso in concorso a Venezia nel 1965, ma purtroppo assai meno felice.

TERRENCE RAFFERTY
The New York Times

“I find I am inimical to the idea of making two similar films in succession,” wrote the great Indian director Satyajit Ray in 1966, and in this, as in everything he wrote or filmed, he spoke the truth.
At that point, 11 years after the premiere of his first movie, “Pather Panchali,” he had written and directed 13 features, all of which will be on view at the Walter Reade Theater starting Wednesday, along with seven from the next decade of his career. The films are at least as various as his statement suggests, and you’re not likely to worry, as Ray did in 1966, whether their diversity indicates “a restlessness of mind, an indecision, a lack of direction resulting in a blurring of outlook — or if there is an underlying something which binds my disparate works together.”
Restless, yes. Blurry, never. And the “underlying something,” which is simply his bottomless curiosity about how people negotiate the most urgent demands of nature and culture, is impossible to mistake, no matter what kind of Satyajit Ray movie you’re watching.
Some of the films in this series (co-sponsored by the Film Society of Lincoln Center and Columbia University), like the nutty fairy-tale picaresque “Goopy Gyne Bagha Byne” (1968), can be a little baffling for non-Indian audiences; nothing travels worse than folk humor. And some might make you feel as if you needed to know a good deal more about the history and politics of the subcontinent — and specifically Ray’s native Bengal, where most of his stories are set — to understand the finer nuances of the characters’ behavior. Ray, however, has nuances to burn: you can miss quite a few and still feel as if you know his people intimately.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Bengalese, discendente di una famiglia di letterati e di artisti, ha la possibilità di compiere studi regolari, di laurearsi in economia e in fisica, di seguire i corsi di Rabindranath Tagore e di occuparsi di pubblicità, prima di compiere un viaggio in Europa dove s'imbatte nei maggiori film del neorealismo (lo colpisce in particolare Ladri di biciclette). Incuriosito dalla presenza di Jean Renoir venuto in India per girare Il fiume (1951), prende seriamente in considerazione l'idea di fondare una società per produrre film che documentino la realtà nazionale piuttosto che narrare le favole e i melodrammi della tradizione. Si materializza così, fra grandi difficoltà, la spettacolosa impresa della «trilogia di Apu», gruppo di film ricavati dal romanzo di uno scrittore bengalese.

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