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Rassegna stampa di John Cassavetes

John Cassavetes è un attore statunitense, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 9 dicembre 1929 a New York City, New York (USA) ed è morto il 3 febbraio 1989 all'età di 59 anni a Los Angeles, California (USA).

A CURA DELLA REDAZIONE
MYmovies.it

Interprete di talento e regista, Cassavetes è stato il pioniere di un cinema sperimentale e a basso costo in contrasto con le produzioni dispendiose del cinema hollywoodiano. Il suo debutto come attore è con Taxi (1953); seguono Delitto nella strada (1956), e Nel fango della periferia (1957), dove è accanto a Sydney Poitier. Ma se come interprete Cassavetes frequenta spesso e volentieri il cinema commerciale, come regista preferisce il cinema indipendente. Il suo debutto dietro la macchina da presa, Ombre (1959) è uno dei capisaldi del cosiddetto «New American Cinema»: girato in 16mm e con largo spazio all'improvvisazione, analizza un tema scottante come le relazioni interrazziali.

DAVE KEHR
The New York Times

TWO major films of the 1970s, John Cassavetes’s “Husbands” (1970) and Chantal Akerman’s “Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles” (1975) have recently reappeared on DVD, a coincidence that’s almost an act of film criticism in itself.
Cassavetes’s loquaciously American, loose-ended style has little in common with Ms. Akerman’s terse and tidy European modernism, but the two films share a common project: an attempt to isolate and define a gender-specific sense of experience.
“Husbands” follows three middle-aged buddies — Harry ( Ben Gazzara ), Archie ( Peter Falk ) and Gus (Cassavetes) — over the course of an extended, international bender prompted by the unexpected death of a fourth friend.
“Jeanne Dielman” documents three days in the narrowly circumscribed life of the title character (played by Delphine Seyrig ), a Brussels widow who works as a part-time prostitute to support herself and her teenage son, receiving male clients in the late afternoon after she has completed her daily roster of repetitive domestic tasks.
With their long running times (3 hours 21 minutes for “Jeanne Dielman,” 2 hours 22 minutes for “Husbands,” with 11 minutes of newly restored footage), both films signal their intent to break with the usual standards of cinematic storytelling.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

"Tutto ciò che devi fare per sentirti meglio è essere te stessa": lo diceva Moskowitz a Minnie in Minnie e Moskowitz, appunto. Era il 1971. John Cassavetes - allora quasi sconosciuto da noi - raccontava con quel film la storia che ha sempre raccontato: la vita comune della gente comune. Ora, con la sua morte, è proprio questa quotidianità che torna alla mente. "So bene cosa pensa la gente", diceva. "So come sono i suoi umori, quali sono i suoi livelli di tolleranza e forse anche cosa sta cercando". Era questa la dichiarazione d'intenti di un autore, semplice e raffinato, che si definiva "umanista" e che amava "girare" con attori-amici. All'umanità dei personaggi Cassavetes ha sempre piegato il proprio cinema, usandolo per scrutare umori e volti, e cercando di non sovrapporsi a essi. Faces, facce, si intitolava un suo film famoso del 1968 (aveva allora meno di quarant'anni, essendo nato a New York il 9 dicembre 1929 da una famiglia di immigrati greci). Per due ore la cinepresa stava sui volti dei protagonisti, e ne scopriva pensieri e sentimenti. Lo stesso accadeva in Mariti (1970) e in Una moglie (1974), analisi dell'universo coniugale dai punti di vista maschile e femminile. Anche come attore Cassavetes prediligeva il registro della quotidianità e del realismo, dalla prima apparizione in Quattordicesima ora (Henry Hethaway, 1951) a Contratto per uccidere (Don Siegel, 1964) e Quella sporca dozzina (Robert Aldrich, 1967). Quotidianità e realismo in cui, però, riusciva a insinuare ambiguità perturbanti, come nel suo personaggio più famoso, il demoniaco Guy di Rosemary's Baby (Roman Polansky, 1968). In Italia il cinema di Cassavetes tardò a giungere, nonostante i premi di Venezia a Ombre (1960). Solo dopo il ‘76, con il successo di Minnie e Moskowitz, il nostro mercato gli si aprì: vedemmo così Faces, Mariti, Una moglie e i più recenti L'assassinio di un allibratore cinese (1976), La sera della primaUna notte d'estate (1980), Il grande imbroglio (1985, il suo ultimo film). Eppure, fra tutti, Minnie e Moskowitz resta il nostro ricordo più dolce, con quelle tenere, precarie sicurezze da "gente comune" che allora furono anche nostre, alla fine di un decennio pieno di illusorie speranze.

MARCO CICALA
Il Venerdì di Repubblica

Una notte dell'inverno newyorkese, nella grigia, ingessata America dì Eisenhower. Febbraio 1957. Ai microfoni radio di una trasmissione per nottambuli e insonni è stato invitato un giovane attore dal cognome esotico, Cassavetes: John Cassavetes (l'origine è greca), che Hollywood reclamizza come una specie di nuovo Marion Brando. È lì per presentare il film che dovrebbe fargli spiccare il gran salto verso la fama: Edge of the City, in italiano Nel fango della periferia drammone proletario, regia di Martin Ritt.
Negli studi radiofonici, però, il «nuovo Marlon» si dimentica subito degli obblighi promozionali e spiazza tutti: «Pensate a quanto sarebbe bello», dice agli ascoltatori, «se a fare film fosse la gente qualunque, e non quei parrucconi di Hollywood che pensano solo al business». Poi rincara: «Volete un i film che parli di cose vere, di gente vera? Non avete che da mandarmi i soldi perché ve lo faccia io». La colletta frutterà duemila dollari. Cassavetes dovrà raggranellarne altri 38 mila per autoprodurre il primo film da regista: il leggendario Shadows, considerato ormai l'apripista del cinema indipendente americano, oltre che uno dei suoi più memorabili risultati.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Nell'epoca del rinnovamento, intorno agli anni '60, il cinema seguì le strade più disparate e ardue. Fra queste, il tentativo di cogliere la realtà al volo usando le tecniche della improvvisazione e ricorrendo alle riprese effettuate con la macchina a mano. Se in Europa il profeta della macchina a mano era Jean Rouch, etnologo, in USA questa tecnica fu abilmente sfruttata dall'attore greco-americano Cassavetes che, dopo essersi laureato in letteratura inglese, s'era iscritto alla American Academy of Dramatic Arts ed aveva iniziato una fruttuosa carriera in teatro e alla televisione. Con i guadagni del lavoro televisivo imbastisce una produzione indipendente e gira a New York, in ambienti reali, la storia di tre fratelli neri e dell'amore d'una di loro per un ragazzo bianco. Trasportato da 16 a 35 mm il film - Ombre (1961) - è accolto dalla critica come una rivelazione: la freschezza di attori non professionisti, impegnati in una improvvisazione assolutamente libera, ha consentito di penetrare nel mondo chiuso dei pregiudizi razziali e familiari delle piccole borghesie cittadine.

UGO CASIRAGHI

La rivelazione di John Cassavetes regista si ebbe alla Mostra di Venezia del' 1960 con il suo primo film Shadows (Ombre); esattamente vent'anni dopo, Gloria vi avrebbe ricevuto un Leone d'oro, a coronamento d'una carriera prestigiosa. Volto espressivo, nevrotico, sufficientemente patibolare all'occorrenza, il figlio di immigrati greci era già noto quale attore: in America anche per una serie televisiva, sugli schermi europei per Delitto nelle strade di Don Siegel; Nel fango della periferia di Martin Ritt; Lo sperone insanguinato di Robert Parrish. Ma Ombre era tutt'altra musica e non aveva proprio nulla da spartire con Hollywood.
Era infatti uno degli esiti migliori di quella tendenza newyorkese che, all'epoca, si chiamava New American Cinema. Si ricorderà, perché in seguito raggiunse anche il pubblico più vasto, la nervosa, sfumata, modernissima sigla di quel film di evidente avanguardia sperimentale, dove le varie gradazioni dell' «esser nero» in una notturna metropoli gestita dall'uomo bianco, erano captate in diretta e dal vivo, come «rubate» all'attimo fuggente, secondo un metodo che poco dopo, in Francia, Godard avrebbe portato al massimo di anticonformismo.
Negli anni Sessanta Cassavetes accrebbe la propria fama di interprete in Contratto per uccidere di Siegel (dove il suo antagonista era un cattivissimo Ronald Reagan), in Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, in Rosemary's Baby di Polanski; e sul finire del decennio si esibì nella veste di gangster anche in un paio di film italiani. Era soprattutto un attore, ma in questi casi faceva l'attore solo per danaro o, più esattamente, per pagarsi i propri film liberi e indipendenti. Attore professionista e regista dilettante, soleva dire di sé; anzi non tanto regista (director) quanto semplicemente e gloriosamente filmmaker, alla lettera «facitore di film».
Attore o, meglio ancora, uno che quando riusciva a fare il proprio cinema, lo concepiva e realizzava dal punto di vista dell'attore. Ciò non significa affatto, però, che i suoi film fossero esclusivamente dei saggi di recitazione. Lo erano senz'altro, e di livello elevato; ma diventavano qualcosa di ben superiore, qualcosa di veramente opposto ai tradizionali sistemi hollywoodiani, perché gli attori non vi erano adoperati come merci di scambio o come oggetti. Vi figuravano invece come soggetti, uomini, personaggi: gente che «in prima persona», appunto, raccontava se stessa, atteggiamenti sentimenti turbamenti e vizi, senza mentire. Tra improvvisazione e costruzione, davanti all'obbiettivo senza mediazioni, in un cinema inteso quale «scenografia della vita» e girato con cinepresa spesso manovrata a mano, talvolta ballonzolante per le vie della città.
«Per me - diceva Cassavetes - i film hanno poca importanza. Le persone sono più importanti». Proprio per questo tutto il suo cinema è un cinema di persone, di facce, di dialoghi e monologhi. Non per niente i suoi attori di professione, a cominciare da lui stesso, si mescolavano senza difficoltà con i dilettanti, con i tipi presi, come si diceva una volta, dalla strada; e non per niente i suoi tentativi di inserirsi nella macchina hollywoodiana, dopo il successo di Ombre, andarono falliti. Anche se nel secondo di essi, Gli esclusi (1963), che qualche volta le televisioni riprendono, i protagonisti erano del calibro di Judy Garland e Burt Lancaster; ma le cose più autentiche rimangono gli esterni di quella scuola per bambini handicappati e, se si vuole, i contrasti all'interno delle coppie di genitori, che preannunciano sviluppi futuri.
Cassavetes torna a Venezia nel 1968. con il suo vero secondo film, che appunto s'intitola Faces («Volti», ma non si ebbe mai un'edizione italiana). In esso egli apre un'indagine sulla condizione matrimoniale, poi proseguita in tre successive tappe che rappresentano il culmine dell'arte sua: Mariti (1970), Minnie & Moskowitz (1972), Una moglie (1975); tutt'e tre ospitati dall'edizione 1975, in una memorabile «personale».
Noi parleremo di Husbands visto in quell'occasione, e non di Mariti accorciato di un'ora. Accadde infatti sui nostri schermi che la società distributrice, immemore del proprio nome di «Impegno Cinematografico», s'impegnò invece a umiliare il film e i suoi protagonisti, contrastando ottusamente le loro doti di naturalezza e, insieme, la continuità di un ritmo fatto anche di voluti scompensi, di certe calcolate provocazioni in sequenze dai tempi lunghi. Risultato ditale intermittente macello dell'edizione nostrana era una perdita secca, che va unita all'altra già prevista: col doppiaggio si livellava inevitabilmente il contrasto linguistico tra l'americano e l'inglese, che nella seconda parte produceva effetti squisiti. Miserie italiane, che il povero Cassavetes non si meritava.

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