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Rassegna stampa di David Lean

David Lean è un attore inglese, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, è nato il 25 marzo 1908 a Croydon (Gran Bretagna) ed è morto il 16 aprile 1991 all'età di 83 anni a Londra (Gran Bretagna).

TERRENCE RAFFERTY
The New York Times

DAVID LEAN was famous for his perfectionism, and like every director afflicted with that quality he didn’t — couldn’t — make perfect movies. His films betray the anxiety of their making. He also couldn’t make many. He completed just 16 in his long career, a paltry 4 in the 30-plus years that followed the great international success of his wartime epic “The Bridge on the River Kwai” (1957). That movie ends, after nearly three hours of conflict, peril, courage, violent death and decidedly mixed motives, with a single summarizing word, spoken twice: the word is “madness.”
And if you were to watch all 16 of David Lean’s pictures, being shown at Film Forum’s centennial retrospective (through Sept. 25), you might find that word echoing in your head even as you’re admiring their impeccable craftsmanship: the precise editing, the elegant compositions, the smooth camera movements, the unimpeachable performances. The madness in his method is what gives his work its quivering, almost alarming life.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

I genitori, quaccheri, timorati di Dio, non riescono a distoglierlo dal peccato del cinema. Fa ogni cosa quando lo accettano alla Gaumont (fattorino, ciacchista, alla fine montatore). Nasce tecnico, conosce il linguaggio dall'interno: doti che mette a disposizione di Noel Coward per il film in co-regia Eroi del mare (1942) e per il successivo Spirito allegro (1944). Possiede, inoltre, il gusto della introspezione psicologica, cui sa costringere gli attori che a lui si affidano: su questa base costruisce alcuni gioielli di cinema intimistico (Breve incontro, 1945, storia «soffocata» di un adulterio borghese, con gli splendidi Trevor Howard e Celia Johnson), umoristico ( Hobson il tiranno, 1954, con un impagabile Charles Laughton), letterario (le due riduzioni dickensiane Grandi speranze, 1946, e Le avventure di Oliver Twist, 1948, in cui spicca l'intelligenza di un interprete come Alec Guinness), ironico - mondano (Tempo d'estate, 1955, infatuazione veneziana, idiota nel fondo, d'una turista astutamente interpretata da Katharine Hepburn). Ma Lean non si ferma qui.

UGO CASIRAGHI

Tra le occupazioni nevrotiche di Nanni Moretti, giocatore di pallanuoto in Palombella rossa conteso tra politica e sport, memorie di famiglia e rapporti coi mass-media, c'è anche quella di seguire, su un televisore opportunamente piazzato in piscina, le lacrimevoli avventure del Dottor Zivago. Quando l'eroe del contrastato romanzo di Pasternak, impersonato da Omar Sharif nel film ben più discutibile di David Lean, invecchiato e malato si trova su un tram a Mosca e scorge l'amata Lara (cioè Julie Christie) che cammina tra la folla, il gruppo degli sportivi guidato appunto da Michele Apicella (cioè Moretti) entra in contatto diretto col piccolo schermo. Zivago scende a precipizio dal tram, tenta di inseguire Lara, la chiama, la chiama disperatamente... Lei non sente, non si volge, non si avvede che il poveruomo crolla stroncato dall'infarto... Nel frattempo in piscina si tifa per lui, si grida invano alla donna di voltarsi, di non lasciarlo morire così, senza l'ultimo abbraccio, senza almeno (come si diceva ai tempi dei romanzi d'appendice) un'«agnizione». Niente da fare: ogni intervento degli spettatori per modificare la storia è vano, la legge dello schermo è più implacabile di quella della vita.
Ecco come si poteva rendere omaggio, in modo un po' ribaldo ma fresco, a un colosso spettacolare e popolare, a uno dei film che più sono piaciuti al pubblico e più hanno incassato da quando il cinema esiste. Paradossalmente la trovata comica ci avvicinava alla tragedia d'amore che si rinnovava davanti ai nostri occhi, ce la faceva, per così dire, accettare meglio. Tra commozione e beffa, tra cinefilia onnivora e demistificazione intelligente, Nanni Moretti salutava scherzosamente, ma in fondo calorosamente, il cinema di David Lean. A suo modo era un ringraziamento quale l'ottantatreenne regista inglese non avrebbe ricevuto dai giornali all'indomani della sua morte, avvenuta a Londra il 16 aprile 1991. Complessivamente i giornali sono stati freddi, forse per adeguarsi a quella sorta di accademica «freddezza» che, secondo la maggior parte della critica, emanava sempre dai film di sir David.
Nominato baronetto in occasione della sua ultima trascrizione cinematografica da un romanzo celebre, Passaggio in India, David Lean è stato comunque l'ultimo grande narratore dello schermo, almeno intendendo la narrazione secondo le regole tradizionali da lui stesso illustrate. «Amo una bella storia forte. Amo un inizio, una metà e una fine... Amo la costruzione drammatica. Amo emozionarmi quando vado al cinema. Amo essere colpito. Amo un buon intreccio... Sarò strano, ma a me piace raccontare una storia il più chiaramente e semplicemente possibile».
Ma Lean ha anche confessato: «In realtà, in fondo, io sono un montatore». È la confessione di un artigiano raffinatissimo e «supermeticoloso», più che di un artista geniale. «Invidio la gente che ha improvvisi colpi di genio perché io non li ho. Cerco di raffigurarmi ogni modo possibile per girare una scena e poi scelgo quello che sorprenderà il pubblico». Tutto qui, ma è poi così semplice?
No, non è affatto semplice, e per arrivarci bisogna almeno aver fatto la «gavetta» come l'ha fatta Lean. Nato a Croydon, nei pressi di Londra, il 25 marzo 1908 da famiglia quacchera, era entrato negli studios Gaumont nel 1927, a diciannove anni, facendo dapprima il fattorino, il custode del guardaroba, il ciacchista, e a poco a poco diventando assistente operatore, assistente-montatore, assistente-regista. È vero che il montaggio fu la sua scuola decisiva, come quella del documentario che del resto, grazie allo scozzese Grierson, stava per diventare in Gran Bretagna una gloria nazionale.
Il suo primo film, Eroi del mare (1942), doveva infatti molto al linguaggio documentaristico. La cosa curiosa è che autore del soggetto, della sceneggiatura e della musica, protagonista e produttore, oltre che coregista con lui, era Noel Coward, cioè l'uomo più lontano dal documentario, e dal film di guerra, che si potesse immaginare. Attore di teatro e di cinema, compositore e drammaturgo, Coward era soprattutto un commediografo di successo, dai dialoghi brillanti, e i cui testi erano stati più volte adattati al cinema, per esempio da Hitchcock e da Lubitsch, in Inghilterra e in America. Ma occorreva, adesso, partecipare allo sforzo bellico della patria, e Coward, per esordire nella regia di un film come In which we serve, aveva bisogno di avere al fianco un «tecnico» di sicura competenza. Scelse David Lean e non se ne pentì. Eroi del mare (o Il cacciatorpediniere Torrin, altro titolo italiano) ebbe perfino due nominations, per il film e per la sceneggiatura, ai premi Oscar.
Ormai Lean era il regista di fiducia per Noel Coward, che gli affidò la trasposizione di tre sue commedie. La prima fu, nel 1944, This Happy Breed ("Questa nidiata felice", in Italia La famiglia Gibbon), un testo in onore della famiglia media inglese e della sua capacità di resistenza. La seconda fu Spirito allegro, uscita nell'aprile del '45: una commedia di fantasmi così divertente, che per seguirla a teatro gli spettatori dimenticavano di scendere in rifugio durante gli allarmi. Il trattamento della famiglia e dell'istituto matrimoniale era stavolta più spregiudicato e il film, che vinse l'Oscar per gli effetti speciali, beneficiò oltretutto di un clima più sereno: la guerra era agli sgoccioli, e finito l'incubo si rideva con più gusto.

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