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La zona d'interesse, una profonda riflessione sull'audiovisivo. Un’opera da ricordare e rielaborare

Il film di Jonathan Glazer mette in scena l’indicibile e lavora sul fuoricampo. Ed è l’ombra di Stanley Kubrick a guidare il lavoro di regia, il suo impeccabile razionalismo e la sua volontà – maniacale, asettica e fin quasi riefenstahliana – di perfezione. Vincitore di due Oscar e ora al cinema.
di Emanuele Sacchi

martedì 30 gennaio 2024 - Focus

«Quello che non c’è», diceva Manuel Agnelli. Quel che c’è, ma non si vede, replica Glazer. Lo iato tra percezione soggettiva e osservazione oggettiva è una riflessione costante del cinema contemporaneo. Si potrebbe dire un’urgenza, visto il rapporto distorto e ipertrofico con il senso della vista e quello svogliato e smemorato con la memoria e con il nostro passato che caratterizzano l’homo sapiens del terzo millennio. Riflessioni da cui prendeva spunto Martin Amis per "La zona d’interesse", ma l’adattamento cinematografico che ne trae Jonathan Glazer appare come il miglior esempio possibile di trasformazione di un grande romanzo in una profonda riflessione sull’audiovisivo (senza per questo snaturarlo).

Ancora una volta Glazer mette in scena l’indicibile e lavora sul fuoricampo, con un approccio ibrido. Era così per l’aliena mangiauomini di Under the Skin – altro adattamento-reinvenzione – in cui il dispositivo ingannava lo spettatore, mescolando componenti di cinema (del) reale con una subdola candid camera, e utilizzava la trama sci-fi per rivelarci ciò che siamo nel profondo. È così per La zona d’interesse, in cui il fuoricampo è il campo di concentramento e la Soluzione Finale all’opera, mentre l’inquadratura si dedica a una famiglia, quella del direttore del campo Rudolf Höss, e ai suoi ordinari problemi quotidiani, così simili a quelli che affliggono la famiglia borghese odierna. Ritorna la banalità del male, e apparentemente si potrebbe accostare Glazer a Haneke, ma è soprattutto l’ombra di Stanley Kubrick a guidare il lavoro di regia, il suo impeccabile razionalismo, il suo lavoro sulla componente audiovisiva, la sua volontà – maniacale, asettica e fin quasi riefenstahliana – di perfezione.

I minuti di solo audio dell’incipit - una composizione di Mica Levi che sembra rievocare il suono di urla di dolore umane – richiamano immediatamente il lavoro di Ligeti su 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione): stessa inquietudine, stessa sensazione ultraterrena che dona immediatamente un’impronta precisa alle immagini che seguiranno. Ma siamo ben oltre l’omaggio o l’ispirazione. Kubrick diviene la guida per aspirare a un livello superiore di astrazione, in un ossimoro tanto più stridente quanto più è ingombrante l’oggetto-contenuto da cui distaccarsi emotivamente (il lager). Quel che si trova al di là del muro si può solo intravedere; la tragedia va in scena accanto, è collaterale. Ma tra frame e fuoricampo è in atto un’osmosi: impossibile evitare che attraverso il setto semi-permeabile dell’inquadratura avvenga un passaggio, uno scambio.

L’astuto gioco di campi e controcampi – dieci camere collocate alla maniera di un reality show attorno alla magione degli Höss - e la meticolosa osservazione del profilmico, costantemente osservato da prospettive inusuali e arbitrarie, sembrano conferire importanza a ogni dettaglio. Svelato il mistero, tutto assume un nuovo significato e ogni situazione quotidiana sembra una versione distorta di quanto avviene al di là del muro: non saremo più in grado, come è giusto che sia, di interpretare con il medesimo metro di giudizio quanto avviene alla famiglia Höss. Ma, una volta che tra spettatore e personaggi si è creato un distacco siderale, ecco che la sceneggiatura li riavvicina, insinuando il dubbio che sia proprio la normalità di alcuni piccoli gesti e dialoghi il monito nascosto di La zona d’interesse. I discorsi sulla carriera professionale di Rudolf, la personificazione di animali e piante (e il suo contrasto con l’oggettivizzazione delle vittime di Auschwitz), riproducono comportamenti e vizi della nostra contemporaneità borghese. Tendenze sempre più diffuse nella società del terzo millennio, che pongono inquietanti dilemmi etici su quale sia il possibile approdo di una graduale disaffezione dal nostro lato più umano e istintuale (e qui torna di nuovo Kubrick, magari via Haneke, e la sua sfida costante ai limiti impensabili della natura umana).

Di Auschwitz ascoltiamo solo i rumori, spari e grida di dolore. Anche noi spettatori, complici e colpevoli, assisteremo alla rivelazione della verità – periodicamente negata e ridiscussa – solo a cose fatte, in un epilogo che sfrutta il reale per aprire al surreale. Un’opera da ricordare, rivedere, rielaborare.


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