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I nostri ieri, Andrea Papini: «Nasce tutto da una visita a Rebibbia. Rimasi scosso, ma anche incuriosito...»

Il regista ritrova Peppino Mazzotta e mette in scena all'interno di un carcere un film nel film, realizzato dai detenuti e tratto dalla storia di uno di essi. In vista dell'uscita al cinema di giovedì 9 febbraio, abbiamo incontrato Papini e gli abbiamo chiesto com'è nata l’idea, come si è evoluta, e quanto importante è stato il ruolo del cast.
di Luigi Coluccio

lunedì 6 febbraio 2023 - Incontri

Giovedì 9 febbraio esce in sala I nostri ieri, film di Andrea Papini con un cast scelto al millimetro e composto da Peppino Mazzotta, Francesco Di Leva, Daphne Scoccia, Maria Roveran e Denise Tantucci.

La storia, le storie, è quella di Luca (Mazzotta), regista di documentari che forse ha perso la vena creativa e anche quella di vivere, che si ritrova a gestire un laboratorio di cinema all’interno di carcere. Qui conosce Beppe (Francesco Di Leva), detenuto per un crimine di cui scopriremo pian piano la natura, e Luca, per tornare un po’ a lavorare e a un po’ a vivere, decide di proporre al direttore del carcere come saggio finale un film. Ma saranno gli stessi detenuti a realizzarlo, e proprio mettendo in scena la vicenda di Beppe.

Abbiamo parlato con il regista Andrea Papini di tutte le sue diverse implicazioni che I nostri ieri mette in scena.

Mi sembra che il film parta da due temi importanti, due nodi centrali nel dibattito giuridico e mediatico degli ultimi mesi e anni, e cioè da una parte la riflessione attorno al carcere e ai vari regimi di detenzione, e dall'altra il femminicidio.
Sono due cose che entrano a forza nel film, all’interno di un tema più generale che è il rapporto con il tempo e con le nostre pulsioni. Questi ultimi due concetti si materializzano nel carcere, che è il luogo che contiene chi ha fatto l’impossibile, l’impensabile, e la rappresentazione di un delitto, in quel delicatissimo rapporto che c’è tra il maschile e il femminile.

Questo soggetto nasce tanti anni fa, quando sono andato a presentare a Rebibbia “La velocità della luce”. Era la prima volta che entravo in un carcere del genere, e mi fece molto effetto, mi fecero effetto i cancelli e l’attenzione che i detenuti avevano per chi venisse da fuori. E il mio primo pensiero è stato su cosa avessero combinato quelle persone per stare lì. Quindi mi sono domandato perché c’è così attenzione da parte del cinema nei riguardi dei detenuti, del carcere, e la risposta che mi sono dato è che si tratti della fascinazione per chi ha compiuto dei gesti che potremmo fare anche noi.

Sul femminicidio, sul rapporto uomo-donna, mi interessava guardare a questi uomini incapaci di gestire le loro pulsioni e ipotizzare delle cause e non concentrarmi sulle conseguenze che a volte sono delle speculazioni morbose. Poi tutto si è concatenato, perché nel momento in cui introduco il carcere introduco il delitto, ma quando racconto il delitto posso farlo vedere o cercare di capire le cause. E questa è stata la strada che abbiamo seguito.


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In foto Peppino Mazzotta e Maria Roveran in una scena del film I nostri ieri.

Poi c’è la messa in discorso di quella che forse è la frontiera più avanzata e sperimentale del cinema contemporaneo, cioè il documentario, o meglio, il cosiddetto “cinema del reale”.
Oggi siamo circondati dagli audiovisivi, professionali e amatoriali. Viviamo in un meta-mondo dove è facile che qualunque storia si sviluppi abbia a che fare con la realizzazione di un un’opera audiovisiva. Il cinema nel cinema è stato utilizzato da grandissimi autori e non è certo una novità, però un po’ scherzando mi faceva piacere dare in mano la creazione del film nel film a questa sgangherata troupe di detenuti, che ritrova entusiasmo in un lavoro piccolo, umile, gestito a sua volta da un regista preso in una fase di transizione.

C’era anche l’ambizione di ricostruire tutta una parabola tecnica del cinema, vista la presenza delle animazioni, del blue screen. Ma, fondamentalmente, siccome il cinema è uno specchio della realtà, come il commissario di tanti sceneggiati televisivi ha l’autorizzazione ad indagare sulle vite delle persone, il cinema fa lo stesso.

Sempre sul versante cinematografico, estetico, traspare proprio un lavoro di costruzione dell'immagine attraverso il suo senso. Ad esempio, nelle interviste che il protagonista Luca realizza a casa di Beppe, si sfuma dalle riprese di Luca a quelle realizzate da lei. Oppure la sequenza finale, che non sembra quella girata dai detenuti ma qualcos'altro.
Sono degli aspetti sui quali abbiamo riflettuto e lavorato. Nell’intervista a Teresa Saponangelo c’è in sovraimpressione il mascherino della macchina da presa che pian piano scompare, c’è anche un lavoro sulla grana, e così durante tutto il film si lavora tra quello che è immaginato e quello che è reale. Sono scelte istintive dal punto di vista artistico.

La scena finale sarebbe, in teoria, possibile da realizzare con il blue screen, visto che siamo all’interno di un camion e con il supporto della retroproiezione, tant’è che in un primo momento si è pensato di girarla tutto in studio. Poi, affascinati dai panorami, abbiamo deciso di uscire, per seguire questo gioco di vero/finto e far chiedere se quello che stiamo vedendo sia il film realizzato dei detenuti o la memoria del delitto.


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In foto una scena del film I nostri ieri di Andrea Papini.

La figura di Luca, il personaggio interpretato da Peppino Mazzotta, colpisce, ma in modo controcorrente. Fino alla fine hai sempre il dubbio che stia sul filo del rasoio tra partecipazione e indifferenza, presenza e assenza, non solo nei confronti dei detenuti ma anche nei confronti della sua stessa vita, a partire dalla figlia fino al rapporto con la moglie e perfino la casa dei genitori.
Luca era il personaggio più difficile da mettere in scena. I ruoli più interessanti al cinema sono quelli carichi di ambiguità, e Luca si porta dietro proprio le nostre ambiguità e i nostri aspetti irrisolti. Peppino Mazzotta è il Virgilio che va nelle vite degli altri e si mette in rapporto alla propria esistenza. E in qualche modo tutte le fragilità che incontra lo aiutano a smuovere, a rompere, la crosta che si è creato negli anni.

Poi tutto il film è impostato sul non detto, su emozioni, stati d’animo raccontati attraverso gli occhi, i gesti, le situazioni, per evitare un eccesso di verbosità, magari oggi un po’ di moda, ma che finisce per raccontare quello che si vede.

Proprio riguardo la capacità di far arrivare queste linee narrative ed emotive, quanto è stato importante avere con sé un cast del genere? Un cast che sembra spaccato in due, con da una parte Francesco Di Leva e Daphne Scoccia che sono nel baratro e hanno vissuto, e dall'altra Peppino Mazzotta e Denise Tantucci che invece sembrano solo nel baratro senza neanche aver vissuto.
Sì, il personaggio di Denise Tantucci, che interpreta la figlia di Peppino Mazzotta, deve ancora vivere e viene colta dalla paura. Lei che è sempre così sicura, così impostata, in questo mondo pieno di regole difficili da interpretare, però il Luca di Mazzotta la capisce perché contemporaneamente si trova a lavorare su un delitto orribile che stenti a comprendere. Ci sono questi parallelismi emotivi lungo la storia, dove ho cercato di esplorare le emozioni sia di chi ha compiuto un delitto sia di chi ne è rimasto vittima.

L’idea era di creare questo mosaico in cui le azioni dei personaggi si riflettessero anche non direttamente. Ho avuto la fortuna di avere un casting meraviglioso sul quale non ci sono stati dubbi, nel senso che mi sarebbe piaciuto fare un film proprio con questo cast, ho proposto la sceneggiatura e hanno accettato. Nessun altro sarebbe andato bene come questo gruppo di attori.

Abbiamo lavorato durante il Covid in remoto preparando le scene, il cast ha percepito nel migliore dei modi le direzioni della sceneggiatura e le riprese sono scivolate via con estrema facilità. Il ruolo più difficile, dicevo, era quello di Peppino Mazzotta. Ma ormai lavoro con lui dal 2006, è ho la certezza che lui sopperisce ai miei, ahimè, limiti, dando un’interpretazione eccellente.


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