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Ad Astra: nessuno si salva da solo

Il nuovo film di James Gray è la seduta d'analisi di un uomo in crisi con se stesso. Al cinema.
di Giovanni Chessari

Ad Astra

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Brad Pitt (William Bradley Pitt) (60 anni) 18 dicembre 1963, Shawnee (Oklahoma - USA) - Sagittario. Interpreta Roy McBride nel film di James Gray Ad Astra.
giovedì 3 ottobre 2019 - Scrivere di Cinema

Un padre, una madre, un figlio: le durate multiple del medesimo istante in Interstellar, l'inarrestabile ciclo dell'eterno ritorno in Arrival, la tenace persistenza dell'età bambina in Ad Astra (guarda la video recensione). Ondivago, palindromo, inamovibile: per la filmografia para-fantascientifica contemporanea la variabile temporale sembra tradursi in un'efficace strategia narrativa dei rapporti familiari. Ed effettivamente, ancor prima che abile cosmonauta, il protagonista Roy McBride è il seguace obbligato di un glorioso iniziatore, l'emulo ostinato di un maestro pressochè sconosciuto, l'erede orfano di un genitore ombra.
Non è un racconto di oltre-mondi né d'invasioni aliene. Ad Astra è il ritratto di un vagabondo intergalattico in crisi esistenziale, la tragedia di un uomo anagraficamente adulto ma mentalmente bloccato nel ricordo di un abbandono lontano, l'apologo di una crescita dolorosa ma alfine imprescindibile.

È il dramma di uno spirito votato all'isolamento (un Brad Pitt di clamorosa intensità), colto non solo nel momento della rottura definitiva, ma soprattutto nella spaesante congiuntura d'acquisita consapevolezza della propria catastrofe spirituale.
Giovanni Chessari

È così che James Gray, col funzionale supporto della voce fuori-campo secondo l'esempio eloquente di Terrence Malick, metaforizza la dolorosa seduta di auto-analisi dell'astronauta alla deriva in forma di perigliosa spedizione interplanetaria, percorrendone senza remore i tempi lunghi e i silenzi parlanti, i toni incostanti e i soliloqui perentori, le intimità del tormento nascosto e le paure di un animo irrequieto.

D'altra parte, il regista non trascura neanche di recuperare l'orgoglio anticolonialista della sua precedente Civiltà Perduta (guarda la video recensione), finendo per smontare, rivisitare e infine ribadire i nuclei tematici essenziali del suo cinema più saggio e rivoluzionario. Davanti a questa nuova prova d'autore, è evidente come egli continui a muoversi sulle due direttrici fondanti del suo linguaggio filmico: la convivenza comunitaria globale e la formazione personale dell'individuo, ovvero le modalità ineluttabili con cui le due prospettive, quella collettiva e quella specifica, assumono il loro senso ultimo solamente nel loro inevitabile spalleggiarsi, contagiarsi, contaminarsi.


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