Se c'è qualcosa verso cui Darren Aronofsky merita sicuramente riconoscenza, questo qualcosa è la sua audacia, il suo coraggio nel portare avanti le proprie idee senza curarsi se queste vadano contro i gusti del grande pubblico o piuttosto contro gli stilemi del cinema indipendente. E se il riconoscimento di tale arditezza è venuto da sé nel momento in cui essa è stata il concime di un ben meritato successo, è invece necessario richiamarla con rispetto all'attenzione dello spettatore nel caso di opere minori o di fronte a flop più o meno gravi. Ma è forse ancora più importante (proprio per il fatto che il rischio è qui maggiore) guardarsi a sua volta dal commettere l'errore opposto, ovvero dal giudicare positivamente un'opera per il solo fatto che in essa si riscontri una certa capacità di osare.

Certo, l'originalità e la ricercatezza stilistica sono qualità importanti per un autore, ma come ricordava in ogni occasione il Gradgrind dickensiano, con tono cinico e freddo: ciò che conta alla fine "is nothing but facts!", sono solo i fatti.

Proprio per questi motivi, se non può essere negata una certa ambizione all'ultima opera del cineasta statunitense, questa ambizione non può e non deve, ipso facto, decretarne il successo.

Bisogna però, per un film come quello in questione, distinguere innanzitutto un discorso formale da uno contenutistico, poiché per entrambi i livelli è presente una differente tipologia di ambizione. Il discorso stilistico è quello in cui Aronofsky osa di più, tramite l'utilizzo di soluzioni particolari, di primi piani claustrofobici che tolgono il respiro e che non aprono mai su campi lunghi, nonché tramite una fotografia cupa che dona all'atmosfera una certa qual componente onirica. Alcune di queste soluzioni funzionano, molte invece no.

Ma ciò che per noi risulta più importante è semmai il piano contenutistico, all'interno del quale viene commessa quella che, in teoria dell'argomentazione, è denominata fallacia del gergo: l'autore sfrutta cioè la confusione del pubblico, creata ad hoc tramite metafore astruse, accadimenti irrazionali o riferimenti psicanalitici, per intimorire gli astanti, che si ritrovano smarriti davanti a linguaggi complessi e che, per una sorta di paura di risultare stupidi, mandano giù il boccone in silenzio, senza troppo domandare. Una supercazzola, insomma, sotto alla quale si nascondono però grandissime banalità. Sbirciando oltre le difficoltà dello script e della messa in scena infatti, ciò che rimane sono solo situazioni già viste (riferimenti a Polanski in primis e a un filone del genere horror che vede nella casa il suo topos fondamentale) e qualche riflessione sul ventre-dimora non certo così originale come vuole sembrare.

Ben poco insomma, se paragonato a quanto Aronofsky ha saputo dare in passato. Si pensi ad esempio a un film come Requiem for a Dream, dove il tema della dipendenza trovava modo di essere espresso tramite sequenze di grande audacia visiva, che sapevano veicolare un messaggio semplice ma efficace (parlo ad esempio di tutta la parte riguardante la madre del protagonista, quella in cui la macchina da presa osa maggiormente). O si citi il grande successo de Il cigno nero, dove l'oniricità a tinte horror di alcuni snodi narrativi era richiesta proprio dalla necessità di rappresentare il dramma psicologico della protagonista. Ogni ambizione era lì calibrata, ma soprattutto acquistava un senso nel comunicare uno specifico messaggio. Qui invece la roboante estetica diventa, in fin dei conti, superflua.