Il regista riesce così a trovare un modo indipendente e cinefilo di staccarsi da alcuni cliché del nostro cinema d'autore. Chiamami col tuo nome, al cinema.
di Roy Menarini
C'è un equivoco di fondo sull'identità cinematografica di Luca Guadagnino. Più che il "nemo propheta in patria", questa curiosa storia di un cineasta molto amato oltreoceano e poco conosciuto da noi tradisce alcune motivazioni che non riguardano esclusivamente la sordità comunicativa dei media o della critica. Guadagnino è un regista italiano che guarda all'Italia con occhi da straniero. Per alcuni questo straniamento è indice di esterofilia e di concessione al gusto internazionali, per altri (i più, bisogna dire) si tratta di un modo indipendente e cinefilo di staccarsi da alcuni cliché del nostro cinema d'autore. In effetti, se osserviamo i film e i registi italiani che in questi anni più si sono affermati in un contesto globale (vincendo premi e festival rinomati), troviamo alcuni nomi di visionari e inventori di nuove forme cinematografiche (principalmente Garrone e Sorrentino), ma anche e soprattutto autori dediti a sguardi "magici" e iper-realisti sul territorio italiano (da Alice Rohrwacher a Grassadonia e Piazza, da Gianfranco Rosi al cinema napoletano).
Guadagnino è forse l'unico a porsi fuori dall'interrogazione costante della nostra realtà sociale o della sua trasfigurazione in termini simbolici. L'unico a non occuparsi di periferie o di luoghi etnicamente connotati, e l'unico a non ambire all'affresco contemporaneo stile Sorrentino.
Il suo dizionario è cosmopolita, e in effetti è uno dei cineasti che meglio guarda al cosmopolitismo insito in tanto nostro cinema del passato. E proprio al più cinefilo e trasversale dei nostri registi, Bernardo Bertolucci, si ispira principalmente Chiamami col tuo nome, dove gli echi di specifici film del maestro parmigiano (tra cui ovviamente Io ballo da sola ma anche indirettamente La luna) prevalgono su citazioni più oziose, da Renoir a Rohmer, da Garrel a Rossellini - e anche se Guadagnino continua a ricordare il suo amore per Viaggio in Italia, sinceramente non se ne vede traccia in questo ultimo lavoro.
Ecco, dunque, che il vocabolario cinéphile, l'approccio stilistico inconsueto, e l'Italia guardata da straniero (e da stranieri, come di fatto sono tutti i personaggi del film, che mescolano francese e inglese, Europa e America, lasciando all'Italia solamente il paesaggio) probabilmente isolano Guadagnino in una nicchia senza identità.
E sarebbe in effetti complesso trovare tracce di analisi antropologiche del nostro Paese nei suoi film, tanto affezionati alla propria intima autenticità fuori dal tempo che l'irrompere della cronaca è sempre grottesco o volutamente sopra le righe (Corrado Guzzanti in A Bigger Splash, i discorsi su Craxi in Chiamami col tuo nome).
È vero che il regista nelle interviste rivendica la necessità della sua fiaba sensuale e utopica, dicendo: "Il mio film non è una storia d'amore gay, piuttosto parla dell'empatia necessaria in una contemporaneità atomizzata e arrabbiata". Tuttavia, e per quanto attentamente gli anni Ottanta siano stati rievocati, Chiamami col tuo nome è un film arcadico, così come lo erano i curiosi richiami alla natura rigogliosa durante la famosa sequenza erotica di Io sono l'amore. L'estate di Elio è prima di tutto una sperimentazione puramente emozionale del desiderio in adolescenza, e della misura dell'identità in un periodo in cui a comandare sono le pulsioni sessuali.
E allora il riferimento principale di Guadagnino è proprio la poesia bucolica, con la dimensione arcadica della natura in bella vista. Teocrito ci pare essere il modello del regista, che pure depista lo spettatore attraverso un apparato intellettuale non sempre convincente (da Prassitele ad Antonia Pozzi, con riferimenti alla filosofia tedesca), e che invece ha come motore l'esperienza della poesia greca.