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Star Wars VII conquista e convince

Il film di J.J. Abrams è il nuovo blockbuster del secondo decennio, umanista, semplificato, trasparente, meno digitale e soprattutto più famigliare.
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di Roy Menarini

In foto una scena del film.

domenica 20 dicembre 2015 - Focus

Chiedersi se Il risveglio della forza sia un grande film, fuori da ogni contesto, è un errore.
Chiedersi se questo sia il miglior Star Wars possibile, invece, ha senso. E la risposta è assolutamente positiva. Difficile immaginare un'impresa più ardua che dare un seguito alla trilogia originale, riconvocando attori e personaggi quasi quarant'anni dopo il capostipite in ordine di realizzazione, e costruire un nuovo universo seriale in grado di funzionare. Forse non è ancora chiaro a quale rischio fosse chiamato J.J. Abrams. E quali risultati sia stato in grado di raggiungere. Star Trek non c'entra molto (anche se la tipologia di ricostruzione ha molti punti in comune): in quel caso si trattava di rivitalizzare una serie di lungometraggi spesso deludenti e poco amati anche dai fan della saga televisiva. Qui tocca mettere mano all'epica contemporanea in assoluto più nota e amata del mondo.

Se consideriamo che gli stessi artefici delle saghe, negli ultimi anni, hanno deluso gli appassionati attraverso l'involontaria manomissione dei propri universi narrativi (George Lucas con gli episodi I, II, III; ma in fondo anche Peter Jackson con la trilogia Hobbit), andrebbe eretto un monumento ad Abrams per come ha saputo entrare nello spirito di Guerre stellari e costruire un mondo cinematografico che - prima di ogni altra considerazione - fa sentire a casa propria, oltre che Han Solo e Chewbecca, anche gli spettatori. In buona sostanza, a Il risveglio della forza si crede pienamente, e tutto sembra ricomporsi in una linea narrativa ed estetica unitaria, ben simboleggiata dal combaciare delle mappe in ologramma dei due droidi, in una delle sequenze più emozionanti del film.

In uno dei testi di estetica più importanti - e meno conosciuti - degli ultimi anni ("Estetica pragmatista"), il filosofo americano Richard Shusterman analizza il concetto di arte popolare e spiega che, a differenza di quella classica e istituzionale (tenuta viva dalla scuola e dai centri di conservazione), essa viene tramandata direttamente dal pubblico e dai destinatari. E così i film della trilogia 1977-1983 sono divenuti classici, pur essendo arte pop e frutto di una cultura postmoderna di recupero, riuso, citazione, remix, manierismo. In buona sostanza, George Lucas aveva frullato samuraismo e miti greci, Tolkien e western, commedia e fantascienza, riuscendo nel cimento più arduo: costruire un prototipo e una saga moderna capace di bastare a sé stessa, indipendentemente dai materiali di seconda mano che ne costituivano l'ingegnoso cocktail.

Ecco, Abrams ha compreso che questa volta - per fare arte popolare - bisognava indirizzarsi a Star Wars: Episodio IV - Una nuova speranza (ma per noi rimarrà per sempre Guerre stellari) come alla "Toccata e fuga in re minore" di Bach o all' "Enrico V" di Shakespeare o al "Campo di grano" di Van Gogh. Con il rispetto che si deve all'arte istituzionale, e non solo popolare. Non si poteva fare uno Skyfall di Guerre stellari. E dunque Abrams, che oltre a un grande regista va considerato uno storico del cinema di primo livello, ha lavorato a livello molecolare su quei film, riproponendo gradi di colore, tagli dell'inquadratura (certe orizzontalità di ripresa e certe disposizioni dello spazio interno al fotogramma portano alle lacrime il cinéphile per la perfezione del calco), effetti speciali ed equilibri stilistico-formali delle produzioni originarie.

Poi ovviamente c'è la dimensione narrativa, fatta di padri e figli, di ribaltamenti (la luce che si insinua nel buio, e non il contrario), di aggiornamenti (una donna e un afroamericano ribelle: Katniss, Daenerys, Django e Obama saldati in un sol colpo), di colpi di scena, di nostalgie, di perdite e di ritrovamenti, secondo nuovi schemi postmoderni a loro volta, tuttavia subordinati al classico che già c'era.
E se oggi fare arte popolare - quella vera - significa fondere in un solo vortice il remake, il reboot e il sequel, ebbene questo non è più nemmeno un prezzo da pagare, ma il nuovo blockbuster del secondo decennio, umanista, semplificato, trasparente, meno digitale e soprattutto più famigliare, in tutti i sensi che il vocabolario offre a questo termine. Bentornati a casa (nostra).

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