Un po’ di burlesque, l’immancabile richiamo alle maschere di Fellini, un pizzico di Jesus Christ Superstar (in Erode e nel gran finale), qualche pillola di Vincent Minnelli e molto (melo)dramma; a prima vista si potrebbe riassumere così la cifra stilistica del film di Luhrman. Ma il suo non è un copia e incolla, non è un superficiale collage di pezzi sparsi; è una rielaborazione del testo letterario di riferimento, a cui rimane strettamente fedele sia nella linea narrativa sia nello spirito, con l’uso straordinario di una molteplicità di mezzi espressivi sapientemente dosati, in cui le atmosfere e le tematiche del tempo (siamo negli anni ’20) vengono filtrate dalla modernità, tecnologica, interpretativa, musicale ma comunicate nella loro integrale essenza. E soprattutto c’è molto Luhrman nel suo Grande Gatsby. L’impianto è sostanzialmente quello di Moulin Rouge: c’è un narratore/scrittore che è anche uno dei protagonisti della storia, una parte visionaria e rutilante per descrivere un certo ambiente, l’uso ricorrente del computer nelle riprese dall’alto e negli avvicinamenti rapidi ma progressivi alla scena dell’azione, c’è una storia d’amore dal pathos montante che lascia intravedere un finale irrisolto, c’è l’epilogo tragico, in un’alternanza di momenti di sfrenata vitalità e di risvolti drammatici. C’è la capacità di L. di sfuggire alle regole narrative, attingendo trasversalmente a vari generi e dettando e cambiando in piena libertà registri emotivi e ritmi dell’azione.
Dalla Parigi del Moulin Rouge di fine Ottocento si passa alla New York del terzo decennio del secolo scorso, caratterizzato da un grande dinamismo sociale figlio di una capitalismo sfrenato che genera movimenti spasmodici in tutti i campi, divari di classe, facili arricchimenti e improvvisi depauperamenti; c’è volatilità, provvisorietà, tutto è in trasformazione, e manca la percezione che il gigante dai piedi d’argilla possa crollare da un momento all’altro, come pochi anni dopo avverrà con l’esplosione della Grande Crisi del ’29.
Gatsby incarna queste contraddizioni: viene da umili origini ma accumula in poco tempo una smodata fortuna; organizza feste miliardarie a cui partecipano fiumane di gente di ogni risma e provenienza, ma ciò cui mira e dà un senso alla sua vita è la riconquista di Daisy, la donna che non ha dimenticato; è un puro, un romantico ma non disdegna fare affari non proprio limpidi con qualche boss del posto. Gatsby è solo, solo senza Daisy, senza veri amici, senza il calore umano degli altri; alle feste dal palco osserva senza essere guardato gente che non conosce, che non si conosce; il marchio della solitudine lo perseguiterà fino alla morte e proromperà con tutta la sua virulenta evidenza ai suoi miseri funerali.
Gatsby ha una sola meta, che diventa ambizione, poi miraggio, sogno, ossessione, illusione, follia. Gatsby con tutte le sue debolezze ed i suoi limiti diventa suo malgrado eroe, sconfitto ma non perdente, ucciso per un’ingiustizia e dalla pochezza, la viltà, l’opportunismo, l’avidità, l’amoralità di coloro che lo circondano e costituiscono lo specchio fedele della società americana di quell’epoca. E’ Nick - il narratore (cioè lo stesso Fitzgerald) che è anche il testimone della vicenda, l’elemento di unione tra i suoi protagonisti, il mediatore, l’unico che decide di avvicinarsi al mondo interiore controverso ma pieno di umanità tra tanta falsità di Gatsby- che dopo la tragedia sente il bisogno di immortalarne la figura, pura perché immune non da pecche ma dalle peggiori degenerazioni umane, scrivendone la biografia e nel contempo liberando i suoi pensieri da troppo tempo prigionieri nella sua sconvolta mente. E le parole scritte prendono corpo, si vedono e si sentono, si allineano e si scompongono, si diradano e si sostituiscono per seguire i pensieri in libera uscita; saranno proprio queste, le parole scritte, a diffondere per sempre la favola maledettamente vera di Gatsby, che aveva fatto costruire la sua casa a forma di reggia di un reame immaginario sulla sponda opposta a quella dove abitava Daisy, e che la sera si alimentava della vibrante luce verde proveniente da quel pontile oltre il fiume…« E mentre meditavo sull'antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all'estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia ... e una bella mattina... ».
Ottimo il cast, ma la statura di DiCaprio, con le sue recenti rughette su quella pelle eternamente liscia che gli conferiscono piena maturità, gli occhi ammalianti che trasudano tenerezza, l’espressione malinconica che denota in ogni momento il suo traboccare d’amore pulito e purificante, fa, come sempre, la differenza. Come dice un critico americano: “DiCaprio cattura tutti i lati di Gatsby: la durezza del truffatore, la morbidezza di un uomo che ha bisogno di un confidente, la follia di un sognatore che investe in un sogno morto”. Forse affiora qua e là qualche vischiosità nei passaggi tra situazioni emotivamente stridenti, come se non tutte le tessere del mosaico combaciassero perfettamente, forse talora Luhrman tende a strafare, ma il film investe e sommerge come un torrente in piena e questo compensa abbondantemente i suoi difetti.
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